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La società di massa non vuole cultura, ma svago
Lo diceva Hannah Harendt, che ci vedeva bene.
La cultura. È una parola che, secondo chi la pronuncia, può diventare una parolaccia o qualcosa di cui avere timore. O qualcosa di prezioso a cui aspirare non avendocela. Mi faccio una cultura, studio per arrivare a un certo livello culturale, la cultura degli avi, la cultura di un popolo, la cultura letteraria, musicale, gastronomica; poi, c’è anche quello che dice che colla cultura non si mangia. E, inevitabile in questi tempi incolti, c’è chi crede che ci sia una cultura della destra anche perché ha sempre pensato che la cultura predominante che c’è è solo ed esclusivamente di sinistra.
Che volete farci, gli psicofascisti sono fatti così.
Non avendo una cultura sono invidiosi di quella degli altri che, magari, può anche capitare che ne abbiano una ma superficiale.
Ma che la cultura sia di destra e di sinistra è una specificazione alquanto bizzarra, tipica appunto di chi non sa cosa sia la cultura.
La cultura della Destra, ultimamente, sta avendo una riscossa. Ma questo lo credono, appunto, gli psicofascisti che abbiamo al governo, persone che colla cultura in generale hanno poco a che fare.
Lo ha dimostrato soprattutto l’ex ministro Gennaro Sangiuliano, che, oltre a notevoli svarioni storici e geografici, si è piccato di far risaltare ciò che sarebbe la cultura di Destra.
Ora, fermo restando che la Destra, l’estrema Destra storica, che ha caratterizzato vent’anni del Novecento, portandoci alla totale disfatta, considerava cultura da tramandare le stesse cose che si erano sempre studiate, come i classici, le scienze, le arti, che si dovrebbero studiare anche oggi, Sangiuliano si è incaponito di fare una gigantesca mostra sul Futurismo come non si è mai vista. Per riportare, pensava lui, alla giusta prospettiva di destra il movimento futurista, che si glorificò nel regime fascista.
Mah! Io ricordo, forse ricordo male, che il futurismo russo appoggiò la Rivoluzione d’Ottobre, che non mi pare proprio un movimento di Destra. Sì, il futurismo assunse caratteristiche diverse secondo dove si sviluppò, e, nel complesso, fu assai interessante perché s’intrecciò cogli ultimi vagiti del Liberty e poi si sovrappose al Déco e al Razionalismo, fondendo, a volte, estetiche e problematiche diverse.
Per esempio Antonio Rubino, poeta e illustratore di quel periodo, pur non futurista in senso stretto, ideò il primo lungometraggio a cartoni animati, con carattere animatamente futurista, “Crescendo Rossiniano”, perduto durante la guerra mondiale sotto le bombe a Berlino, una sorta di Fantasia (1940) di Walt Disney in chiave italiana. E lo stesso Rubino, per nulla in sintonia col regime, era autore di racconti di fantascienza, Le cronache del futuro (1932-1934), pubblicati a puntate sul Corriere dei Piccoli. Anche designer, come Depero, disegnò camerette per bambini negli anni Venti.
Voglio proprio vedere se Antonio Rubino, che scrisse anche dei versi per un ciclo vocale musicato da Ottorino Respighi, Deità silvane, verrà ricordato in questa mostra del Futurismo su cui si è polemizzato moltissimo per i criteri poco scientifici con cui tutto è stato affrontato e con partecipazioni di opere private di chissà quale provenienza.
Ma il bello è che tutti questi che vorrebbero esaltare una cultura della Destra, finalmente, dopo decenni di predominio della cultura della Sinistra, non hanno minimamente idea dell’enorme produzione culturale che ci fu durante il fascismo, con autori, architetti, compositori, artisti d’ogni tipo. Alcuni di essi crearono opere che esaltavano il regime, certamente, ma molti altri assolutamente no.
Tutti dovevano avere la tessera del partito fascista, per lavorare; anche mio nonno, che era socialista, dirigente delle ferrovie, dovette obtorto collo prendere la tessera, altrimenti la sua famiglia non avrebbe mangiato, perché il regime faceva così, ricattava. E lui, che andava bestemmiando alle adunate, metteva i “pettacci” applicati da mia nonna, ossia ciò che spuntava della camicia, dalla giacca, era nero, il resto era bianco ma non si vedeva.
Si lamentano, quelli della Destra, che Gabriele D’Annunzio, il Vate d’Italia, non sia abbastanza valorizzato. Ignorano, probabilmente, che sue opere teatrali vengano rappresentate ogni tanto, come La figlia di Iorio, o lo splendido Martirio di san Sebastiano, con musiche di Debussy; quest’ultimo, più internazionale, anche all’estero. Forse non sanno nemmeno che lo scrisse lui. Ignorano che alcune romanze da camera di Francesco Paolo Tosti e Ottorino Respighi, che vengono eseguite in recital di canto, sono musicate su testi di D’Annunzio. Eppure sono convinti che sia messo da parte perché fascista. Povere stelle, quanto sono mediocri.
Ma la lagna costante che la cultura della Destra è stata vilipesa, evitata, e quasi degna della damnatio memoriae fa parte del solito vittimismo di questo governo, che adesso parte alla riscossa con temi a lui cari, come la mostra su Tolkien, autore tanto amato da quelle parti, che sembra diventato importante come Ludovico Ariosto, e adesso quest’evento planetario del Futurismo. Come se non si fossero fatte, in passato, mostre sui futuristi e alcuni artisti in particolare, come Fortunato Depero.
Io stesso, ventidue anni fa, partecipai a un meraviglioso spettacolo che comprendeva I sette peccati capitali di Brecht-Weill, Le chant du rossignol di Stravinsky e Parade di Satie, questi ultimi coi costumi originali di Depero e Pablo Picasso, al Teatro Massimo di Palermo. E la direzione artistica era tutt’altro che di Destra.
Questo per dire che non esiste una cultura della Destra o della Sinistra.
Esiste, invece, una subcultura della Destra coi suoi riti psicofascisti, estremamente provinciale, che si appiglia all’unica cosa che può dar lustro al governo attuale, ossia uno scimmiottamento squallido e annacquato dei fasti del Ventennio, quando c’era Lui.
Che poi, appunto, dei miliardi di cose che successero in quei vent’anni dal punto di vista artistico, musicale, letterario, tutta questa marmaglia politica non sa una minchia fritta. Provate a fare un esame sulle canzoni, per esempio, che caratterizzarono il Ventennio. Gli unici che fecero degli spettacoli apposta su quel periodo, mettendone in evidenza un aspetto nostalgico e ironico, furono Filippo Crivelli (“Le Canzoni del Ricordo”, sempre per il Teatro Massimo) e Paolo Poli, che esibiva costantemente lo sberleffo di fronte ai sacri e intoccabili miti della patria, della virilità, del colonialismo, della propaganda mediatica tra radio e cinema che da quelle canzoni veniva fuori. Basti pensare allo spettacolo su Aldo Palazzeschi, Aldino mi cali un filino? : florilegio di novelle e poesie di Aldo Palazzeschi con canzonacce e balletti d’epoca in due tempi (2001), capolavoro di Paolo Poli. E Crivelli e Poli erano due omosessuali antifascisti che, avendo vissuto quegli anni, erano coscienti di quella cultura popolare, mettendone in evidenza l’unica lettura possibile, dettata da un distacco che ormai la Storia aveva marcato: la parodia di quell’Italietta. Ecco, provate a chiedere se gli psicofascisti conoscono qualche altra cosa che non sia la Canzone dei sommergibili o Faccetta nera. Interrogateli: chiedete delle romanze dannunziane di Tosti o delle opere di Respighi, dei racconti del futuro di Rubino. Il vuoto totale. Di che cultura stiamo parlando?
La cultura della Destra, quindi, non esiste per due ragioni.
La prima è che la cultura è l’insieme delle manifestazioni che un popolo o più popoli esprimono, relative alle arti, alle lettere, alle scienze, alle attitudini e che quindi è composita, necessariamente, perché appunto espressione di molti.
La seconda, assai grave in realtà, è che la cultura, nella Destra che ci governa, si nota per la sua assenza.
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