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Il teatro dei bambini
Il primo modo in cui molte famiglie italiane vengono a contatto con il teatro è, normalmente, la “recita scolastica”. Forse non sanno, però, che – più o meno raffazzonato, più o meno edificante (o addirittura cattolico: vi ricordate il presepe vivente natalizio, con la più carina di classe che faceva Maria e il più caruccetto che faceva l’Arcangelo?), più o meno ben fatto – il teatro a scuola è frutto di una lunga battaglia, e di un complesso viaggio teatrale iniziato sul finire degli anni Sessanta, che getta le sue fondamenta molto prima. Era il 1923 quando Walter Benjamin scriveva il “Manifesto per un teatro proletario dei bambini”: lasciate liberi i bambini di recitare davanti agli adulti, scriveva più o meno, e vedrete che grande cambiamento pedagogico e didattico. Sarebbero stati gli adulti, secondo il filosofo, a imparare dai piccoli. Sul finire degli anni Sessanta del Novecento, poi, grazie a quella memorabile esperienza che fu definita Animazione Teatrale, il teatro invase la scuola: fu una rivoluzione, una spinta energica e creativa davvero notevole. Alcuni geniali teatranti abbandonarono i luoghi “istituzionali”, gli edifici per lo spettacolo, e portarono il teatro ovunque: nelle strade, nelle fabbriche, nelle carceri, negli ospedali. E ovviamente in quella scuola ancora paludata del pre-sessantotto. La meraviglia della fantasia contagiò tutti: non solo i bambini, ma anche i maestri, i bidelli, i genitori. Si era capito, insomma, che il teatro, inventato tutti assieme, non solo era divertente, ma faceva bene: liberava la creatività del bambino, lo stimolava, lo aiutava a crescere meglio. Riassumo grossolanamente, ma questa storia è invece molto lunga e complessa. Di fatto, passati dieci, quindici anni, quelle esperienze di grande innovazione si consolidarono in veri e propri “centri” di teatro per ragazzi: insomma, nacquero teatri destinati e dedicati al pubblico dei più piccini. E i teatranti svilupparono doti, tecniche, drammaturgie specifiche. Il teatro ragazzi italiano ha espresso genialità, momenti altissimi di poesia e pedagogia, di invenzione e istruzione. Intanto, oltre che negli spazi specializzati, si tornava a fare teatro a scuola, in classe, e con qualche competenza in più. Se ne parlava, in questi giorni, al bel festival Segni d’Infanzia di Mantova, diretto con affabile determinazione dall’appassionatissima regista Cristina Cazzola. Un festival che ogni anno chiama moltissime produzioni nazionali e internazionali, assolutamente di qualità. Prima di dedicare una riflessione agli spettacoli (che rimando a un altro articolo, non fosse altro per ragioni di spazio e leggibilità: ne ho visti 11 in due giorni), mi piace fare ancora qualche considerazione generale sul settore. Allora due constatazioni e una preoccupazione (davvero generalizzazioni: mi si perdonerà l’approssimazione). Quel che ho avvertito, a Mantova, diffuso tra artisti e compagnie, è una cosciente e condivisa voglia di resistere all’immaginario televisivo o al rutilante mondo Pixar. Sembra quasi che molti degli artisti si siano coalizzati per tenere viva l’esperienza (o la memoria?) del teatro, della teatralità, presso i più piccoli. Dunque, un ritorno all’artigianato, alla semplicità, ai segni diretti e vivi che possano contrastare il mare magmatico di immagini televisive che travolge, quotidianamente, i nostri figli. Illusione e allusione, fabula e fantasia: il teatro ragazzi gioca la carta di una “povertà” che è poetica immediatezza. La seconda constatazione concerne il ruolo dello spettatore-bambino. Mentre il teatro “per adulti”, ovvero il teatro “di ricerca”, si interroga sempre più su quello che il filosofo Jacques Rancière ha definito “lo spettatore emancipato”, coinvolgendo sempre più ogni singolo spettatore nel montaggio emotivo e finale del lavoro, il teatro ragazzi sembra tornare allo spettatore-contingentato, seduto e passivo. L’Animazione Teatrale cercava il coinvolgimento totale dello scolaro; altrettanto ha fatto, decenni dopo, Chiara Guidi con la Socìetas Raffaello Sanzio nella sua “scuola per l’infanzia”: obiettivo della regista era calare il bambino “in fabula”, letteralmente, con effetti sorprendentemente belli e emozionanti. Oggi, mi pare, si sia recuperato lo spettatorino seduto: in aggiunta vessato continuamente da maestre che non fanno altro che chiedere l’immobilità e il silenzio (“sssssshhhh”, si sente ogni due secondi!). Il pubblico dei bambini, si sa, è implacabile – lo dice Peter Brook, non lo dico io – e se si annoia lo dimostra subito: ma tenerli lì, inchiodati, forse non è utile a nessuno. C’è un tentativo, negli spettacoli definiti dai francesi “tout public”, di mettere avanti i bambini e dietro gli adulti-genitori: è già qualcosa, ma pare che i genitori ansiosi non si separino volentieri dai figli, nemmeno per il tempo della rappresentazione! Ecco, infine, la preoccupazione. Si è detto che il settore teatro ragazzi si è “specializzato”, ed è un bene. Un settore importantissimo, perché aiuta a formare i nostri bimbi non solo come “spettatori” possibilmente attenti e critici, ma anche come futuri cittadini – che vorremmo partecipi e fantasiosi. Eppure ci sono molti “improvvisati”: dal momento che nelle scuole ancora “si lavora”, in tanti si buttano a fare teatro ragazzi come attività di ripiego, ma almeno blandamente redditizia, pur senza avere quelle necessarie competenze. Chi fa questo teatro, invece, deve acquisire saperi e consapevolezze indispensabili. Rovescio della medaglia della specializzazione: c’è il rischio, sotterraneo, di un’eccessiva formalizzazione e banalizzazione di stili e stilemi, di tecniche e retoriche. Resta, comunque, un settore vivacissimo, e a Mantova ne ho avuto conferma: pieno di poesia, capace di affrontare archetipi e temi complessi, di raccontare il lato oscuro delle fiabe e di scatenare gioiose fantasie. Con buona pace della Melevisione, i commenti ad alta voce, i pianti, le gioie, l’applauso lieve e commovente dei bambini, fa ancora del teatro ragazzi un momento meraviglioso e ricco di senso.
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