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Il rock omeopatico dell’Eurofestival

27 Maggio 2021

Ma siamo poi proprio così sicuri che i Måneskin siano così trasgressivi e siano quel respiro innovativo di cui aveva bisogno l’Italia per uscire da un anonimato espressivo ormai cementato in canzoni che non devono turbare i placidi luoghi comuni? E siamo davvero sicuri che sia il rock, questo rock, il genere che ribalti un po’ codesta situazione di calma piatta?

Questo al di là delle loro vittorie ai festival regionali e continentali, dove, peraltro, hanno dato il loro meglio, senza alcun dubbio.

Se si guarda al passato, l’unica cosa che possiamo fare se vogliamo ricercare delle situazioni simili di generica inquietudine – perché ne abbiamo avuto a iosa, nel secolo scorso, nei periodi di guerra e tra le guerre e dopo le guerre, che, vuoi o non vuoi, sono sempre dei terribili spartiacque – e andiamo a vedere come l’arte si è espressa per manifestare quell’inquietudine, scopriamo che la musica è sicuramente l’arte più immediata e che più rapidamente penetra nella coscienza popolare, l’arte che più si adatta a essere riprodotta e fatta propria dalle persone, che canticchiano mentalmente o vocalmente il motivo di rottura, che lo danzano, che lo vivono materialmente e corporalmente. La danza è il punto. Il rito propiziatorio del corpo che si agita supportato da ritmi e suoni, è il più primitivo dei riti. E il rock lo incarna alla perfezione.

La storia del rock è sicuramente un processo lungo e composito, pieno di reciproche influenze di generi, sempre più di rottura e coinvolgendo i sensi, con incursioni nell’allucinazione artificiale, e nell’abbattimento di tabù, sessuali, comportamentali, sociali. Non so se il recente successo dei Måneskin sia in linea con tutto questo. Certo, coi tabù della nostra società provincialotta, dove ci sono ancora Capitani e suoi adepti pro vita e pro famiglia (e che famiglia!) che tuonano perfino sul sesso delle fate delle favole o sorelle d’Italia che si proclamano donne, cristiane e madri, il percorso identitario, qualora uno non si riconoscesse nella triade sbandierata, potrebbe presentarsi ancora irto di ostacoli. Ma c’è anche da ricordare che è evidente un forte scollamento tra la società, ben più avanti di ciò che si pensi, e una politica composta da persone di scarsissima levatura culturale – e meno che mai amministrativa – piene di tabù arcaici e, per loro, rassicuranti, come i lavori da uomini e quelli da donne, le facoltà universitarie da uomini e quelle da donne e così via. Proprio cieche codeste persone. E in questo, una band come i Måneskin, un “chiaro di luna” in una notte profonda potrebbe esserlo, tramite le loro giovinezze disinvolte esibite e agitate.

Però, però, però… avendo vissuto e ricordando gli anni 70, in cui ero adolescente e mi affacciavo al mondo della mia identità, scoprendo di continuo cose nuove, devo dire che certi modelli che mi si offrivano – e non c’erano, purtroppo, i moderni mezzi di diffusione in tempo reale né la grande varietà di modelli che c’è oggi – avevano una grinta e un potere di rottura maggiore. Anche un potere riflessivo, ossia critico. Mi riferisco ai Queen e al fantasmagorico Freddie Mercury, solo per fare un esempio tra i tanti. Cioè, si vede spuntare una creatura così, che riempie gli stadi e, con quel consenso, ti dà una speranza che il mondo bigotto e l’oscurantismo possano finalmente scomparire. Al di là che poi il fenomeno mediatico diventi anche una macchina per soldi straordinaria, perché ovviamente i tour e i dischi e le apparizioni in tv si trasformavano in una cascata di diamanti. Al di là della poderosa voce di Freddie, dei suoi testi e delle sue commistioni stilistiche e strumentali mai viste fino ad allora. Oltre ai travestimenti, travestimenti che si ritrovano anche in quell’altro enorme personaggio che è stato David Bowie, fino all’ultimo.

Ecco. Con questi precedenti, che posto possono avere i Måneskin nell’Italia contemporanea? Sono certamente da considerare dei ragazzi di talento, anche perché, pur giovanissimi, hanno dimostrato una certa grinta da rockettari consumati, sebbene aiutati da un supporto mediatico e tecnologico impossibile negli anni 70, dove tutto non era visibile e fruibile in tempo reale come oggi, colle preferenze sui social, senza necessariamente comprare i dischi, senza necessariamente andare ai concerti, collo streaming. Basta vedere le tv commerciali, con tanto di pubblicità, senza molti sforzi, alla fine, e un profilo Instagram per poter avere un contatto col gruppo.

Inoltre che cosa hanno realmente inventato i Måneskin – o chi per loro – ? Cosa leggono quei ragazzi? Perché gli adulti direbbero loro di stare Zitti e buoni, che poi è una costante dei diverbi generazionali, appunto, non una novità? Perché due non fa tre (1966) fu un successo di Rita Pavone, anche quella una scatenata canzone di ribellione giovanile, niente di nuovo sotto il sole. Ma anche Father and son (1970) di Cat Stevens, punti di vista diversi tra generazioni. E così via, non si finirebbe più, tra esempi più o meno aulici.

Queen, Bowie, e molti altri, inventavano tutto, in un’Inghilterra a quei tempi ben più interessante dell’attuale e squallida caricatura di sé stessa e poi ciò che s’inventava si diffondeva in un mondo avido di novità, di cambiamenti, di stravolgimenti, di allucinazioni. Il polimorfismo sessuale lì era una grande invenzione. Ma i Måneskin, che cos’hanno veramente inventato?

A me sembra un’operazione collage, dove stilemi vari di seconda mano s’incontrano e vengono assemblati per creare qualcosa di riconoscibile, di confortante che strizzi l’occhio al passato e ai nonni del rock, tanto da far intervenire nientepopodimenoché Vasco Rossi a difenderli. Vasco Rossi, il trasgressore per eccellenza del panorama rock italiano.

Il conforto del passato, come suggeriva Freud, è un’attitudine facilmente perseguibile e di sicura presa soprattutto in momenti d’incertezza come quello che stiamo vivendo, e quindi riproporre antichi stilemi confortanti, sebbene travestiti da novità, è un’operazione che commercialmente può rivelarsi vincente. Commercialmente è la parola chiave. In fondo la rassicurante aurea mediocritas, sempre in questi tempi d’incertezza, è ancora ciò che commercialmente va per la maggiore, in quanto ha un bacino d’utenza estesissimo, fatto di persone per le quali approfondire un pensiero o un concetto è una fatica e che per parlare (e leggere) si servono solo di proposizioni principali senza complessi gradi di subordinazione. Di slogan insomma.

In quest’immenso bacino d’utenza amplificato dalla rete anche i rapporti commerciali si ribaltano. Dischi non se ne vendono quasi più, è un feticcio per pochi; ciò che si vende sono i singoli brani scaricabili con iTunes, le apparizioni in tv o su youtube, anche come testimonial di prodotti, i profili sui media sociali per poi diventare influenzatori, degli autoscatti col telefono (selfie è una parola che mi ripugna e che per me equivale a pugnetta, la quale, va detto, dà sempre il suo sollievo immediato), e una visibilità condivisibile che dia l’impressione ai fan di poter partecipare attivamente alla vita della vedette del cuore, mandandole cuoricini ed emoticon, o un pollice in alto. Il rapporto dei beniamini superstar coi loro fan è molto cambiato. Certo ci sono sempre i concerti pubblici in teatri e stadi come riti orgiastici collettivi ma lì ci si arriva dopo aver fatto la gavetta in televisione, magari avendo partecipato a finte telerealtà o a kermesse nazionalpopolari. Ma la fruizione è sempre molto diversa, sono diversi i tempi, sono meno diluiti. Oggi tutto è così concentrato e diventa vecchio in un istante. Qualche decennio fa c’era un’elaborazione diversa e un fenomeno culturale o artistico richiedeva molto più tempo per essere elaborato, discusso, proposto e consumato, sia da parte dei creatori che da parte dei fruitori.

Oggi la variabile tempo si è modificata con una velocità supersonica e in un giorno si vive ciò che pochi lustri fa si viveva – e si consumava – in un anno. Non si è modificata però la sensazione di sicurezza che il passato riesce a darci, come punti di riferimento. E quindi alcuni frammenti di passato vengono usati e ricomposti da chi confeziona i prodotti per ingannare l’uomo del presente, spacciando il prodotto di risultanza per “originale”, “nuovo”, “fresco”. Può darsi che ne venga fuori un prodotto potabile, ma sa di poco, almeno per me. La frase, sia poetica che musicale, quella che lascia il segno nella Storia, non c’è. E non c’è perché non è quello che si è ricercato. Resta nel tempo, molto di più, “Essere o dover essere, il dubbio amletico” di Occidentali’s Karma. Resta perché, sebbene quella canzone sia un assemblaggio di concetti, frasi fatte, titoli, quindi una rielaborazione del passato pure quella, si presenta come una vera sintesi dell’epoca, tra la gabbia due per tre dove siamo spesso rinchiusi e la facile tuttologia data dalla libera navigazione sulla rete, una sintesi di tutte le mitologie della cultura di consumo occidentale che diventa il karma e la condanna dello stesso Occidente, perché tutto è comunque il prodotto e la conseguenza di azioni e scelte compiute. Sembra una canzonetta innocua e accattivante ma i livelli di lettura sono molti e assai più profondi. Alla fine la scimmia nuda balla. E anche qui la danza, il rito propiziatorio per la liberazione del corpo, ci coinvolge. Ma è, appunto, un altro livello, anche e soprattutto di linguaggi, e il livello di ironico distacco dell’autore che permea l’intero brano è ancora più determinante nel far restare la sua creazione molto più significativa di un prodotto come i Måneskin, i quali, paradossalmente, potrebbero rientrare come categoria all’interno dell’elenco di consumi della canzone di Gabbani.

Nietzsche concepiva così la circolarità del tempo in Così parlò Zarathustra: il tempo che si svolge è pensato come un cerchio che ritorna eternamente a sé stesso. L’eterno ritorno del tempo, unico scampo dopo la morte di Dio e della Storia.

Io nei Måneskin vedo un dionisiaco addomesticato, truccato, in linea col politicamente corretto, in fondo hanno talento, sono bravi ragazzi, non si drogano, danno l’impressione che il sesso sia importante, sì, ma mi appaiono piuttosto asessuati, e nella triade “sesso droga e rock ’n roll” mi sembrano poco rappresentativi (e trasgressivi).

Il campanello d’allarme che dovrebbe farci riflettere a lungo è che perfino il Capitan de’ Capitani, sempre contro qualsiasi eccesso artistico e culturale – sempre di “sinistra” secondo lui e quindi da contrastare-, è contento per la loro vittoria all’Eurovision, ed esibisce questa sua preferenza sulle reti sociali collo stesso peso di quando esibisce un’arancina o una luganega nei suoi pellegrinaggi per il Bel Paese. Non credo esibisca la sua approvazione per il brano in sé, di cui penso non abbia compreso una beneamata, ma sicuramente in chiave antifrancese per via delle polemiche rosiconissime innescate da certa stampa gallica, non sapremo mai se inutilmente od oculatamente per montare il caso e per far rimarcare al mondo che all’Eurovision c’era anche una nuova e giovane Edith Piaf – il conforto del passato, anche per loro, il fantasma di un prodotto vincente di un tempo – e quindi darle più visibilità, allonsanfandelapatrì(e).

Forse per l’inqualificabile e ignorante bielorusso un gruppo come i Måneskin può apparire il massimo della trasgressione con sesso droga e altre perversioni che ci vede solo lui, incapace di andare oltre i soliti dieci centimetri della propria realtà. E così anziché andare avanti si va indietro, è il conforto del passato.

Io però credo di aver bisogno di qualcosa di veramente nuovo che ancora non si è affacciato sulla scena. Non saprei dire cos’è di preciso ma di certo non un rock omeopatico e ricomposto a tavolino, coscientemente o no. Inventare è difficile. E ancora più difficile è inventare qualcosa che sia la sintesi di un’epoca che però non sia un Bignamino per passare l’interrogazione. Il talento dei quattro giovani rockettari, per renderli veramente convincenti, dovrà esplorare più a fondo la realtà e scoprirne i misteri, tradurli in musica e spalmarli sul pubblico. Questa, per me, è l’arte.

Ma, si sa, io sono un incontentabile.

 

 

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