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Fare cultura ai tempi del virus, e possibilmente dopo
Al diffondersi delle prime notizie sulla comparsa del virus in Lombardia, la prima sensazione di molti italiani che vivono a Monaco è stata di un certo fastidio. Negli stessi giorni, infatti, gli ospedali della città dimettevano, senza grosse complicanze, l’ultima dozzina di pazienti infetti: sulla Sueddeutsche la notizia si trovava solo cercandola, mentre “Primo contagio in Lombardia” richiamava subito il capitolo XXXI dei Promessi Sposi. Quindi, si pensava tutti a un’iperbole melodrammatica fuori luogo, che per altro complicava non poco il nostro lavoro all’Istituto di Cultura giacché, da molto presto, il coronavirus è stato connotato da molti in Germania come infezione etnica. Come che sia, noi che lavoriamo con ospiti italiani siamo stati tra i primi a dover molto modificare, ma leggasi cancellare, la propria attività. È caduto per primo un convegno importante, il più importante dell’Italianistica tedesca, che si doveva tenere all’università. Poi la presentazione di “Alla voce cultura” con Massimo Bray. Poi tre concerti barocchi, un incontro con Michele Boldrin sull’Europa, una serata dedicata al noir italiano con Andrea Cotti e Simone Cozzi, una mostra sui luoghi del viaggio italiano di Goethe per come sono oggi, un’altra antologica di artisti italiani nati dopo il 1980, la presentazione del volume “La storia speciale” (Laterza) di Giusto Traina, dedicato alla storia romana; l’incontro con Nives Meroi sulla montagna – tema molto importante e simbolico nel rapporto tra Italia del Nord e Germania del Sud –; e ancora: varie iniziative dedicate e Raffaello e a Rodari, il 25 aprile con la proiezione di un film sul Germano Nicolini, Il “comandante diavolo”, per i suoi cento anni e perché è prezioso parlare di resistenza in Germania. Infine i nostri progetti più grandi: la seconda edizione di ILFest – primo festival nel mondo germanofono integralmente dedicato alla letteratura italiana, che avrebbe avuto tra gli ospiti Andrea Tarabbia, Claudia Durastanti, Umberto Galimberti, e altri ancora – e dulcis in fundo una importante serata dedicata a Fellini in collaborazione con l’Istituto Francese e il Film Fest. Tutto cancellato. Mette conto fare l’elenco in dettaglio: aiuta a capire ciò che doveva esserci, e che non c’è stato, a causa delle note palline invisibili, spinose e malefiche.
Cosa fare, dunque. La nostra prima preoccupazione è stata quella di salvaguardare i nostri corsi di lingua, un po’ perché sono la nostra fonte più importante di autofinanziamento, un po’ perché i nostri studenti sono il cuore di una comunità che ha nell’Istituto il suo centro. Questo ha voluto dire, e vuole dire ancora, un grande e molto rapido (rapidissimo, per quelli che sono i tempi delle amministrazioni statali) investimento in competenze digitali e materiale informatico. Subito dopo, si è posto il problema di come mantenere una presenza culturale sulla rete. Molte istituzioni culturali hanno allestito soprattutto molti incontri webinar di grande interesse, qualcuno ha realizzato mostre virtuali e concerti in streaming. Noi, nel nostro piccolo Istituto monacense, abbiamo fatto la scelta di improvvisare – letteralmente – una programmazione minimalista e diversa dai nostri programmi: abbiamo pensato si dovesse, di necessità, parlare di quanto succede, pur cercando di mantenere la prospettiva di un istituto culturale italiano che lavora all’estero. Non si possono ignorare gli elefanti nelle stanze.
Uno di questi elefanti è naturalmente il virus. L’altro è la rete. Quando non è ignorata completamente, infatti, la rete è ancora, in Italia, un elemento marginalissimo di riflessione, sia fra gli intellettuali che, più grave, nelle istituzioni culturali. Infatti, se fra gli scrittori Baricco con The Game ha suscitato un qualche dibattito, nelle istituzioni culturali internet si riduce ancor quasi sempre a una presenza informativo-pubblicitaria e, a volte, alla possibilità di e-commerce, quando va bene. La pandemia ha interrotto con inusitata violenza questo sonno, un sonno che oggi appare quasi surreale, a guardarlo retroattivamente. C’è chi si è mosso bene e in maniera molto intelligente: per citare alcuni soggetti di rilievo, l’attività di Treccani in questi mesi è stata fervida (e già la loro presenza social era interssantissima); meritano di essere menzionate le microlezioni di storia dell’arte per i bambini messe in rete dagli Uffizi; la Pinacoteca di Brera ha avviato un confronto prezioso con il pubblico sul museo di domani. Tra le istituzioni che lavorano in prevalenza sullo spettacolo dal vivo, ha prevalso ora la messa a disposizione di un repertorio imporante (ad esempio, La Fenice), oppure la produzione di interventi ad hoc da parte di attori (Piccolo Teatro). Molti, in generale, hanno sviluppato elementi didattici e divulgativi, spesso curati e ben fatti.
Tuttavia, la spesso screditata democrazia della rete ha fatto maturare un fenomeno nuovo, che si situa ai margini delle istituzioni culturali, vale a dire la produzione e la diffusione di contenuti online anche da parte di musei remoti, associazioni minuscole, spesso singoli artisti. Insieme al virus si è diffuso in questi mesi una nuova forma di microbroadcasting via social network che che ha riguardato scrittori, musicisti, artisti visuali, coreografi. Si è trattato di un fenomeno nuovo, la cui qualità è varia come è varia l’umanità, ma che sarebbe forse superficiale liquidare solo come una forma di supplenza nell’attesa che tutto torni come prima. Infatti, sebbene tutti dicano di averne abbastanza di dirette di ogni sorta, i numeri di questo fenomeno non possono essere ignorati. Anzi: per limitarci al nostro minuscolo osservatorio, quelli delle due dirette fatte in questi mesi sono strabilianti. A oggi, infatti, i video che abbiamo caricato (una conversazione con Jacopo Tondelli su Milano a partire dal libro “I giorni sbagliati”, una con Roberta Villa sull’ingresso della Scienza nel dibattito pubblico), sono stati visti da circa 7000 persone. Ora, 7000 visualizzazioni per una paio di video internet come risultato in sé sono ovviamente pochissima cosa, ma se le paragoniamo ai nostri numeri dal vivo si tratta di astronomia. Per avere 7000 persone nel nostro Istituto, che ha una sala manifestazioni che ne contiene centoventi, dovremmo promettere in giro tanti di quei buffet gratis da garantire un fatturato a metà della gastronomia italiana a Monaco, senza contare i costi di viaggio, e talvolta gli ingaggi, per gli ospiti dall’Italia. Quindi, uno potrebbe dire, aboliamo gli incontri dal vivo e facciamo tutto online. Non esattamente: ma ci arriviamo per gradi.
Cosa ci dicono, infatti, le relativamente molte visualizzazioni delle varie dirette online? Innanzitutto ci dicono che intercettano un pubblico diverso dal solito. Chi ha guardato le nostre dirette (ma è un discorso che si può generalizzare) è solo in parte minima qualcuno che frequenta l’Istituto, molto spesso è qualcuno che frequenta la nostra pagina Facebook. Quindi, il primo punto da mettere in conto è che uno stesso evento può parlare a platee diverse. Il secondo punto da considerare è che, con una decina di condivisioni, questo pubblico si ingrandisce in pochi minuti, senza dispendio e con mezzi tecnici limitatissimi. Terzo punto da considerare è che molte di queste visualizzazioni provengono da luoghi non raggiunti dalla cultura dal vivo: luoghi dove non ci sono teatri, corsi di lingua, biblioteche. Quindi, la cultura in rete offre tre prospettive che sarebbe sciocco anche solo pensare di dismettere: cambio di pubblico, estensione numerica complessiva delle platee, raggiungimento delle periferie della cultura.
La domanda quindi è: esistono delle rifrazioni che dalla cultura via zoom possono passare alla cultura dal vivo? La mia personale risposta è: auspicabilmente sì. La prima è quella di rendere l’enorme sforzo divulgativo in rete fatto in questi mesi un cardine permanente dell’attività delle istituzioni culturali. La seconda è quella di acquisire maggiore consapevolezza dell’importanza della provincia e della periferia, soprattutto nello spettacolo del vivo. Immaginare spettacoli scarni, riproponibili con adattamenti tecnici minimi in luoghi non centrali, e a volte non convenzionali, potrebbe rivelarsi presto una necessità. La terza, e più importante, e in stretta connessione con quanto detto prima, è la possibilità di liberare l’attività culturale dall’ansia dei numeri, e investire sulla qualità. Data infatti per assodata la necessità vitale del pubblico per la cultura (pubblico inteso sia come “audience” che come “Stato”), l’occasione della scoperta dei numeri che può offrire la le rete può rappresentare per il mondo culturale una liberazione dal dover fare i conti perenni con la bigliettazione: i numeri veri, oggi, si fanno in rete, e non si torna indietro. È ancora presto, e anzi non bisogna correre, per capire come la diffusione di contenuti culturali online possa divenire anche fonte di entrata stabile per le istituzioni culturali, ma se le potenzialità della rete facessero passare in secondo piano il numero di persone che viene a vedere, con una qualche forma di idolatria, il grande scrittore (magari senza averne mai letto i libri), o potesse far diventare secondaria la mole della platea che assiste vernissage per valutare la qualità delle mostre, ecco: tutto questo avrebbe insegnato qualche cosa.
foto da pixabay.
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