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Fake news, Riace e Festival dei Sensi: intervista a Francesca Borri

21 Agosto 2019

Festival dei Sensi

La Fiaba quale filo conduttore della decima edizione del Festival dei Sensi che quest’anno si svolgerà, dal 23 al 25 agosto, in Puglia nella splendida cornice della Valle d’Itria. Un programma ricco di appuntamenti con i nomi più interessanti del panorama culturale italiano: Ferdinando Abbri, Paolo Matthiae, Quirino Principe, Giovanna Calvenzi, Francesca Borri, Enrico Vanzina, per citarne qualcuno. Un festival diffuso dove la cultura si intreccia in maniera indissolubile alla bellezza dei luoghi e sposa la grandezza della natura. Una tre giorni di incontri, lezioni, mostre, proiezioni e laboratori, nei luoghi più suggestivi della Puglia.

 

Tra i tanti nomi, tutti d’alto profilo, abbiamo scelto di intervistare Francesca Borri. Nata nel 1980, esperta di relazioni internazionale e diritti umani, Francesca è una giornalista freelance – o indipendente, come ama definirsi. Dall’esperienza nei Balcani ai lavori in Medio Oriente dove attualmente vive. Nel 2012 reporter della guerra in Siria. Da quel giorno i suoi articoli sono tradotti in 15 lingue e letti in tutto il mondo. Al Festival dei Sensi Francesca terrà un incontro sulle Fake news, su come funziona il giornalismo oggi e sull’informazione indipendente, partendo dalla sua recente inchiesta sul modello Riace.

L’INTERVISTA

Come si argina il fenomeno delle ‘Fake news’?

– Arginando, intanto, il dilagare dell’espressione ‘fake news’. Che è fuorviante. Perché indica come nuovo un fenomeno che esiste da sempre: il tentativo di manipolare l’informazione. E l’antidoto è da sempre la stesso: il tempo. La qualità richiede tempo. Non solo nel giornalismo. E invece, come spiega Nick Davies, uno dei migliori reporter di inchiesta al mondo, l’uomo dietro Wikileaks, nel suo Flat Earth News, oggi scrivi tre, quattro, anche cinque pezzi al giorno. Per quest’idea sbagliata che bisogna raccontare tutto e subito: mentre il nostro ruolo è raccontare al meglio quello che conta. E per il resto, usare le agenzie. Reuters. AFP. O in Italia, l’Ansa. A loro la cronaca, a noi l’indagine, l’analisi. Il commento. Così, invece, la qualità crolla. E crollano le vendite. In un effetto domino. Perché a quel punto, non hai più neppure le risorse per andare sul luogo, e vedere, ascoltare, capire – che è poi la definizione di giornalismo. Penso che Riace sia un caso esemplare.

– E infatti, il tuo intervento al Festival dei Sensi inizierà proprio da qui. Da questa tua ultima inchiesta che rivela come il cosiddetto modello Riace, noto in tutto il mondo, non funzionasse più. Un terzo dei fondi per i migranti finiva, diciamo, ad altro.

In Italia l’avanzata della destra, a Riace e non solo, è attribuita in larga parte alle fake news. Che convincono gli elettori che i migranti sono un pericolo, e rubano il lavoro. E cose così. Ma Riace ha 2mila abitanti. A Riace si conoscono tutti: è il tipico paesino del sud in cui tutti sanno tutto di tutti. E infatti, non è stato molto difficile ricostruire come è andata davvero. La Finanza ha centinaia e centinaia di pagine di intercettazioni inequivocabili. Ho carte e testimonianze di ogni tipo. Eppure, molti giornalisti erano già stati lì. E non avevano notato niente. Perché? Perché si erano fermati due ore. O più spesso, avevano scritto di Riace da Roma. E da chi è arrivato quel numero che ha colpito tutti, 24, i voti per Mimmo Lucano, quel numero simbolo della sua sconfitta, e che era un numero sbagliato, perché in realtà, erano i voti per la lista di Fratoianni? Da Panorama. Non dalla Russia o dalla CIA. Nessun complotto. Solo la corsa a sparare per primi la notizia a effetto. Senza verificarla. E soprattutto: senza che nessuno poi ti licenzi.

Francesca Borri
Gaza, 2018. A sinistra, Francesca Borri. A destra, Yahya Sinwar.

– Sei stata a Riace due settimane. E in tutto, hai lavorato su Riace oltre un mese. E ora ci torni. Ma ti è possibile fermarti così tanto perché sei una giornalista indipendente.

In realtà, anche questa è un’espressione fuorviante. Sono una freelance, sì – ma solo perché come tutti i corrispondenti di guerra, non ho voglia che da Roma, da Londra, mi ordinino di andare o non andare in un certo paese: è la mia vita, decido io. Ma a parte questo, scrivo per Yedioth Ahronoth, il principale quotidiano israeliano. Di intesa con i palestinesi. Quella di giornalista indipendente è una definizione molto italiana. Ed è un modo elegante per dire che sei un freelance senza sembrare uno sfigato – perché se sei fortunato, il “free” di freelance significa che sei libero, e ti gestisci da solo: ma più spesso, significa che non ti pagano. Ogni giornalista è indipendente. Ma rispetto alla notizia. Perché poi ogni reportage è un lavoro collettivo, e soprattutto, una volta pubblicato, un lavoro di cui risponde tutto il giornale. Dietro il mio reportage dal Venezuela, c’era una squadra di economisti e analisti. L’intervista al leader di Hamas, quella che ha spianato la strada alla tregua di Gaza, ha coinvolto per mesi mezzo mondo arabo. Onestamente, mi chiamano così solo in Italia. O anche: una giornalista sul campo. E perché, dove altro dovrei stare?

– Ma per i precari sottopagati, invece, o non pagati affatto, come si inverte la rotta?

Ancora: con la qualità. E con un po’ di sano sindacato. Molti tentano il crowdfunding, ma a parte alcune eccezioni, e in Italia penso soprattutto a Gabriele Del Grande, che ha una sua comunità di lettori, ed è un caso a sé, il crowdfunding è intanto umiliante, perché alla fine, indica come nuovo un fenomeno che non è per niente nuovo: la colletta tra gli amici – ma poi, appunto: il giornalismo è gioco di squadra. Non esiste giornalista senza giornale. E quindi, la verità è che la rotta si inverte tutti insieme. Con un fronte comune di giornalisti e lettori. Perché come dimostra il Guardian, che online è gratuito, e in una versione uguale e contestuale a quella in edicola, e ha i conti in positivo, i lettori sono pronti a pagare per la qualità. Non hai bisogno di venti pezzi gratuiti, e tutti inutili, ma di uno, anche uno solo, che ti costa, sì: ma che ti informa. Che è poi il motivo per cui una rivista come Internazionale, che traduce il meglio della stampa di tutto il mondo, non è affatto in crisi. Ma tanti, invece, si aprono il proprio piccolo sito. E si definiscono, appunto, giornalisti indipendenti quando in realtà sono attivisti, o ricercatori. O altro. Rielaboratori di notizie recuperate qui e lì. Mi sono battuta a lungo con il Fatto Quotidiano. Sono rimasti a 90 euro a doppia pagina. E sono andata via. Ma sono stata subito sostituita da altri. Il problema siamo noi.

– Mi sono imbattuto in questo articolo online pubblicato su Il Foglio lo scorso febbraio, dove Simonetta Sciandivasci parla del tuo reportage del 2017 sulle Maldive che, a sua detta, avrebbe fatto arrabbiare gli abitanti locali. Puoi spiegarci come è andata?

– La “rivolta” contro il mio libro di cui scrive il Foglio, e che è poi una rivolta su Twitter, non rilanciata da alcuna testata internazionale, è intanto da inquadrare nel contesto delle Maldive. Un contesto che Human Rights Watch, nel suo ultimo rapporto, 16 agosto 2018, riassume come: “An all-out assault on democracy. Crushing dissent” (Un assalto totale alla democrazia. Un dissenso schiacciante, ndr). Perché i social network, in particolare, sono usati come mezzo di intimidazione e pressione. L’8 agosto 2014 è sparito nel nulla il blogger più noto del paese, Ahmed Rilwan. Era in cima alle cosiddette “hit list”: liste che circolano apertamente in rete, con i nomi di attivisti e giornalisti da eliminare. Ed è così che il 23 aprile 2017 è stato ucciso anche Yameen Rasheed, un altro blogger molto noto, e l’unico blogger laico rimasto: accoltellato dopo mesi e mesi di minacce, e inutili appelli alla polizia. Yameen Rasheed, che compare nel primo capitolo del mio libro, è stato ucciso tra l’edizione italiana e l’edizione americana. E tra quanti hanno aiutato i giornalisti stranieri, e in particolare al-Jazeera, che ha girato un’inchiesta sull’economia, su come alle Maldive una minoranza legata al presidente si appropri di larga parte delle entrate del turismo, lasciando tutti gli altri in povertà, non è il solo a essere finito nel mirino.

– E di cosa ti accusa Il Foglio?

E in questo contesto, sono accusata di tre cose: ho scritto che le Maldive non hanno una cucina tipica; ho scritto che Male, la capitale, ha una sola libreria, e invece su Google Maps sono 20; ho scritto che alle Maldive non hanno mai visto un iPhone. Dunque: 1. Sì, in effetti ho scritto che le Maldive non hanno una cucina tipica. La frase è in un paragrafo in cui dico che le Maldive, ovviamente, sono di una bellezza stratosferica: che fa dimenticare però che sono un ambiente naturale estremamente duro, perché alla fine, è comunque un arcipelago in mezzo all’oceano. Non hanno che pesce, perché è tutta sabbia: non c’è terra da coltivare. E non c’è una sorgente d’acqua dolce. Ma se così tanti mi hanno frainteso, evidentemente quella frase non è chiara. Errore mio. Anche se è una frase tratta pari pari dalla Lonely Planet. 2. Confermo: Male ha un’unica libreria. Gli altri 19 pallini di Google Maps, a cliccarci su, corrispondono a cartolibrerie che vendono dispense universitarie. 3. Non ho assolutamente scritto che alle Maldive non hanno mai visto un iPhone. Ho solo descritto una delle tante case di Male che a stento ha senso chiamare casa, e in cui si vivono vite di povertà, eroina, violenza. E mentre ero lì, in una cosa che mai ti aspetteresti di trovare alle Maldive, con uno che si bucava nella stanza accanto, le ragazzine che avevo intorno guardavano tutte il mio iPhone. Guardavano anche tutto il resto, se è per questo. Ogni cosa che avevo. Ma non perché non l’avessero mai vista: perché non avrebbero mai potuto averla. Un ultimo appunto, poi. Su Hamas. Sulla mia intervista a Yahya Sinwar, il leader di Hamas. Che secondo il Foglio, che cita un sito che si chiama Palestine Chronicle, avrei ingannato, vendendo l’intervista a sua insaputa a Yedioth Ahronoth, il principale quotidiano israeliano. Nell’ultima delle sue risposte, è Yahya Sinwar stesso a parlare di un mio reportage da Gaza per Yedioth Ahronoth – per cui scrivo da anni. E a dire che mi ha scelto non: nonostante questo, ma proprio per questo. Proprio perché sono tradotta in ebraico. E gli consento dunque di rivolgersi a Israele senza contatti diretti, che in Palestina, per chi è al governo, sono vietati per legge.

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