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È mercoledì, in piazza si torna al cinema. E lo Sponz Fest continua
Questa premessa sarà ripetuta per ogni pezzo che dedicherò a questa edizione dello Sponz Fest, se l’avete già letta potete passare al paragrafo successivo, altrimenti continuate pure. In questi quattro anni di frequentazione dello Sponz Fest mi sono fatto l’idea che il racconto di un evento del genere fuoriesca dal campo della cronaca giornalistica, in primis per la vastità della sua proposta che abbraccia vari campi dell’arte e dell’intelletto, poi perché la cronaca giornalistica, se non assume i toni del reportage, rischia di essere riduttiva rispetto a ciò che si vuole raccontare, e comunque non è detto che riesca a dargli compiutamente forma. Lo Sponz è un evento onnivoro, anzi plurale e onnivoro, credetemi, venite a vederlo per farvene un’idea. Partendo da questo ho maturato la convinzione che l’unico modo utile per provare a raccontarlo sia attraverso l’utilizzo di una pluralità di stili, dalla poesia all’epica, dalla prosa al racconto e all’articolo di cronaca, fino alla forma del diario personale. Quindi mi prendo carta bianca e vado a cominciare.
Ci sono musiche e musicisti che sembrano venire dal centro della Terra, da quella massa informe che popola il centro della Terra.
Loro suonano la notte, tutta la notte, nelle grotte, nelle piazze. E’ la volta della Banda della Posta e di Micah P Hinson. E si balla fino a notte fonda.
Suonano a sorpresa nelle grotte, e di ciascuna di esse non si può mai sapere il programma.
Io non lo conosco il centro della Terra, non ci sono mai stato.
Immagino però sia come da queste parti, pieno di energia allo stato puro, come queste grotte e come i cunicoli lungo cui sono disposte, come queste piazze che suonano di notte.
Oggi è un mercoledì, arrivato dopo una notte passata fuori, giorno di lamentazione collettiva, e vanno avanti le donne a lamentarsi, ma poi vengono anche gli uomini.
Il telo della Trenodia si dipana lungo le strade e i percorsi di questa edizione dello Sponz Fest, e prende le forme delle correnti invisibili del vento.
Accompagna tutto e tutti il rebetiko, la musica dell’inconscio, che prende forma solo dove c’è un collettivo e una pena condivisa, nei bassifondi, dove l’unico oro che si fonde è quella della malinconia e della speranza.
Si va in processione con il telo, tutti stretti attorno al velo, bianco, come il lenzuolo del giorno delle nozze.
E si va tutti dietro al vello bianco cantando, da Calitri Cairano, tutta la strada a piedi, da Cairano a Calitri, in processione.
Poi alla lamentazione si aggiunge una chitarra a ricomporre tutto e si fa sera, una voce recitante silenziosamente, come pregasse, segue i movimenti dell’arco, e si fa sera.
E’ un’altra sera d’estate e si va al cinema in piazza, e ognuno si porta la seggiola da casa e si va tutti al cinema in piazza.
Mio nonno aveva un cinema proprio qui, vicino alla Chiesa di San Canio, una bella sala cinematografica, dove chi non aveva i piccioli alla fine entrava comunque.
Mio nonno sceglieva i film e li sapeva scegliere bene, Donato si chiamava mio nonno.
Quando indovinava la pellicola tutti a applaudire.
Quando sbagliava, tutti a dire: che schifezza.
Ma ci prendeva quasi sempre mio nonno.
Era bravo con il cinema mio nonno.
E aveva sempre una storia da raccontare mio nonno, e anche lui, fosse stato ancora vivo, si sarebbe andato a prendere la seggiola a casa, e si sarebbe messo lì in piazza Immacolata Concezione a guardare il film che passavano, a sentire le musiche che suonavano.
E avrebbe portato anche i suoi amici: andiamo che per iniziare.
Ci sono uomini e storie che sembrano venire dal centro della Terra, da quella massa informe che popola il centro della Terra.
Ci sono uomini e storie che hanno fatto la storia, come mio nonno.
In un piccolo paese, come mio nonno.
Foto credits: Giuseppe Di Maio e Simone Cecchetti
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