Eventi

È martedì, si dipingono lenzuola e storie di amici allo Sponz Fest

21 Agosto 2019

Questa premessa sarà ripetuta per ogni pezzo che dedicherò a questa edizione dello Sponz Fest, se l’avete già letta potete passare al paragrafo successivo, altrimenti continuate pure. In questi quattro anni di frequentazione dello Sponz Fest mi sono fatto l’idea che il racconto di un evento del genere fuoriesca dal campo della cronaca giornalistica, in primis per la vastità della sua proposta che abbraccia vari campi dell’arte e dell’intelletto, poi perché la cronaca giornalistica, se non assume i toni del reportage, rischia di essere riduttiva rispetto a ciò che si vuole raccontare, e comunque non è detto che riesca a dargli compiutamente forma. Lo Sponz è un evento onnivoro, anzi plurale e onnivoro, credetemi, venite a vederlo per farvene un’idea. Partendo da questo ho maturato la convinzione che l’unico modo utile per provare a raccontarlo sia attraverso l’utilizzo di una pluralità di stili, dalla poesia all’epica, dalla prosa al racconto e all’articolo di cronaca, fino alla forma del diario personale. Quindi mi prendo carta bianca e vado a cominciare.

Calitri è l’osso dell’Irpinia, all’ora dell’alba, alle pendici del calvario, un gruppo di persone si sta preparando alla salita. E’ un martedì mattina inquieto e stanno arrivando ragazzi e genti da varie parti d’Italia, facce conosciute e facce nuove, per prendere parte al rito collettivo dello Sponz Fest di Vinicio Capossela, settima edizione.
– Stamani si comincia presto -, fa il ragazzo addetto al servizio d’ordine, ha una felpa con cappuccio, la barba da radere e parla rivolto a un tizio che tiene un velo in testa e un bicchiere di roba calda nella mano.
– Come sempre, come tutti i santi giorni, che solo i ricchi hanno il privilegio di poter restare a letto un po’ più a lungo, per tutti gli altri, uomini e bestie, la storia è sempre la stessa, tutti i giorni.
– Piacere, io sono Andrea, vengo da Bari -, dice il ragazzo, porgendo all’altro la mano.
– Io mi chiamo Dimitrji, la mia è una storia lunga. Ho avuto moltissime appartenenze. Ho sempre fatto il figurante, rimediando quello che mi serviva in questo modo, facendo la comparsa al cinema, al teatro, alle feste paesane. Dovessi dire di dove sono, da dove vengo, non saprei davvero cosa rispondere.
Mentre aspettano che la processione cominci a snodarsi verso la croce del calvario, loro continuano a raccontarsi altre cose, mentre il bicchiere di roba calda viene lentamente svuotato. Si sale. Alcune donne stanno srotolando accanto a loro un lungo lenzuolo bianco, lo tendono in verticale e nella luce dell’alba ha un candore che difficilmente si potrebbe immaginare. Andrea nota che Dimitrji sembra essere rapito dal riflesso immacolato di quel velo, poi lo nota che china la testa e senza farsi vedere accenna a farsi a un segno di croce con la mano sinistra. Alcuni ragazzi stanno portando dei vasi di pittura nera tutta concentrati in catini, poi, altri, cominciano a radunarsi meccanicamente attorno a quel materiale che è appena arrivato per vedere cosa sta succedendo. Una delle donne che ha appena issato a perpendicolo del suolo il telo bianco comincia a intonare un lamento silenzioso, come un grido di guerra, a cui tutte le altre rispondono andando a intingere ritmicamente i teli nei catini, fanno tutto con gesto solenne, senza guardare mai direttamente negli occhi la gente del pubblico.
Dimitrji nel frattempo, guardando questo spettacolo che tutti chiamano Trenodia e mentre la musica del rebetiko sta andando, si è messo in ginocchio. Andrea lo guarda cercando di intuirne i pensieri, i sentimenti. Dimitrji , che sembra venire da molto lontano, e la cui storia non deve essere stata assolutamente facile. Dimitrji, una di quelle persone per cui il divino sembra avere contorni talmente concreti da mettere in crisi tutti coloro per cui le cose non stanno così. Dimitrji, uno che sembra incarnare uno stereotipo ben preciso e che sembra in lotta allo stesso tempo contro ogni forma di stereotipo, contro ogni forma di normalità. Dimitrji, uno che ascolta musica greca e mastica tabacco, anche la mattina presto, una di quelle persone per cui l’ordine del tempo sembra essere invertito, un figlio della notte, uno di quelli per cui i contorni del buio arrivano fino all’alba, uno di quelli per cui l’estate è benedizione e l’inverno dannazione, uno che sa leggere la rosa dei venti e reincarnarsi sotto sembianze diverse da un momento all’altro. Dimitrji, uno il cui centro di gravità è un po’ ovunque e la cui casa è il mondo.
– Andiamo? -, chiede Andrea all’uomo che si è appena rimesso in piedi.
Lui, dopo essersi sistemato il velo che ha sulle testa, fa cenno di no, nel frattempo continua a arrivare gente che ha appena finito di fare la salita. Quello che resta della piccola processione si snoda lentamente lungo la salita del calvario accompagnata dalla musica del rebetiko, da un lamento che viene da oriente, e dietro alcune donne portano pezzi di telo bianco, come un sudario su cui si dipingeranno forme difficili da capire, come quella musica che due musicisti suonano e che alcuni ascoltano a occhi chiusi. Le donne sembrano Marta e Maria, che di fronte all’impotenza del momento sanno scegliere l’unica cosa che conta davvero all’alba di questo nuovo giorno, la parte migliore. Poi finita la musica la processione di scioglie tutti vanno a fare colazione. Dimitrji è l’unico a restare sul calvario più a lungo degli altri. Andrea scendendo ne continua a vedere la figura che vede nuovamente in ginocchio, rapita. Si volta periodicamente e lo vedo esattamente lì, in ginocchio, assorto in una preghiera da piccolo cristo. Prova a immaginarsi quale possa esserne il contenuto, cerca di entrare in quel suo piccolo getsemani, in punta di piedi, senza disturbare. Intanto nella luce del giorno che comincia a brillare la figura di Dimitrji è sempre lì che prega, come un piccolo cristo che in lontananza porta avanti la sua missione. La campana della chiesa del corso suona le otto, è tempo di cominciare, Andre controlla il programma, è un martedì grasso.

Trenodia è un progetto di arte pubblica di Mariangela e Vinicio Capossela https://www.trenodia.it/

Foto credits: Giuseppe Di Maio

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