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Dignità della «scritture comuni». L’ Archivio dei diari di P. S. Stefano
Il prossino 7 luglio 2023 Saverio Tutino compirà cento anni. Ci saranno molti modi per ricordarlo.
Camillo Brezzi e Patrizia Gabrielli hanno scelto un percorso in cui al centro sta la dignità delle persone.
Forse mai omaggio fu più appropriato.
La gente comune è sulla bocca di tutti, ma poi il problema è riconoscere diritto di parola senza supponenza. Scrive nella sua autobiografia che l’idea era dare vita a un archivio che “raccoglie[sse] diari, memorie, epistolari di persone sconosciute: i documenti scritti, di ogni persona che li conservi o li abbia conservati in un angolo della propria casa”.
In breve le fonti per una ricerca sulla vita umana.
Il primo grande merito di Saverio Tutino quando nel 1984 è avviata la scommessa di quello che poi nel 1991, su iniziativa del Comune di Pieve Santo Stefano, diviene Fondazione Archivio Diaristico Nazionale, riconosciuta con Decreto Ministeriale il 7/6/2000, consiste essenzialmente in questo.
Riconoscere il diritto di parola, e sapere che quella parola e quel diritto non sono tanto lo spazio concesso all’ascolto, ma sono un modo e una piattaforma perché anche la «storia alta», la storia «dall’alto» ritrovino la misura di come la storia ha avuto uno svolgimento.
Molti si sono chiesti come mai un giornalista che ha in gran parte della sua vita ha girato il mondo, improvvisamente atterri in un luogo della provincia e anziché promuovere un’iniziativa che appunto di quelle esperienze di politica internazionale narri, faccia forza sulla voce dei dimenticati. Può sembrare paradossale che un giornalista come Saverio Tutino, dopo aver viaggiato e soggiornato nelle più importanti capitali del mondo trovi riparo in un lembo di Toscana ai confini tra Umbria, Marche e Romagna, e decida di farne un polo di raccolta delle scritture della gente comune.
Eppure al tempo stesso non lo è.
Quella storia, sia quella personale di Saverio Tutino, sia quella che nel tempo porta quell’idea ad essere sfida culturale riuscita, andava raccontata.
Camillo Brezzi e Patrizia Gabrielli ripercorrono quella storia e finalmente questa avventura culturale, in gran parte una scommessa in salita, dimostra tutta la sua forza.
Dove sta quella forza. Almeno in tre aspetti:
1. raccontare la storia intera, meglio «a parte intera» significa raccogliere molte storie singole.
2. nel racconto della storia alcune voci hanno più rilevanza di altre.
3. Nel racconto della storia c’è sempre qualcuno che parla (che è autorizzato a parlare) e qualcuno che ascolta (o che è previsto che non abbia niente a raccontare).
La scommessa dunque stava nell’intrecciare queste tre diverse procedure e fare in modo di dimostrare che il racconto della storia è vero se è plurale, se non è omogeneo, se racconta storie personali che obbligano a rivedere e a riscrivere il senso condiviso del racconto del passato anche quello prossimo. Ovvero nel continuo rimettere in discussione il senso comune.
Il presupposto di partenza è dunque è che ciò chiamiamo «storia condivisa» non è dato, né è raggiungibile. Al massimo possiamo tendere a una «storia comune». Per farlo non basta raccogliere emettere insieme voci tra loro opposte, ma anche sapere che le molte storie dal basso sono un segmento indispensabile per avvicinarsi a una storia comune.
Tendere a raggiungere – come processo di approssimazione per difetto – una storia comune è il contributo primo dell’avventura culturale del progetto che avvia Saverio Tutino nel 1984.
Quel progetto, proprio perché si tratta di superare molte resistenze, non ultime quelle di coloro che avrebbero storie da raccontare o testi di loro memorie scritte che non hanno la forza di riconoscere come parte della storia pubblica e che ancora guardano come «storia minore» vive e si realizza se molte intelligenze si mettono insieme.
Soprattutto se si crea una sensibilizzazione che coinvolge chi ha diari, e documenti, ma anche mobilita storici a farsi promotori e sostenitori di quel progetto che oggi, proprio in forza della documentazione raccolta, versata, della partecipazione dal basso e degli storici, di chi si occupa di storia sociale, di storia orale, delle voci che hanno attraversato l’esperienza di essere testimoni di storia negli ultimi trenta anni -Piero Terracina ,per esempio, hanno dato supporto a quell’idea bizzarra di 40 anni fa.
Un progetto partito lentamente e che oggi è di fatto un monumento nazionale della memoria.
Lettere, diari, memorie, prodotti da donne e uomini, anziani, giovani, bambini e bambine, offrono narrazioni capaci di sollecitare l’attenzione degli storici e di studiosi di diverse discipline e di favorire significative innovazioni nella ricerca. Ma anche dare lo spunto perché quei testi si trasformino in opere teatrali, libri, film.
In breve abbiano una nuova vita.
Dentro a quelle storie, infatti, non c’è la curiosità di spiare una storia nell’intimo, ma c’è la consapevolezza che lentamente prendiamo confidenza con il senso profondo della storia dell’Italia a lungo anonima, ma che con le sue storie ci parla del paese profondo.
Documenti che trovano molte vie per farsi testo (forse i più sorprendente di tutti è quello di Clelia Marchi, scritto su un lenzuolo. oppure la ricostruzione della vita di trincea nella Prima guerra mondiale attraverso centinaia di diari, lettere, memorie, agende, di soldati e ufficiali o anche le storie dei ritorni a casa tra 1946 e 1948 negli anni di lenta uscita dalla guerra su cui con passione ha scritto, proprio servendosi dei diari presenti nell’archivio Giovanni de Luna.
Per non dimenticare, infine, quelle storie di femminicidio, di violenza dentro le mura della famiglia che la cronaca tutti i giorni ci mette davanti e che con molta difficoltà ancora molte e molti riescono a prendere le misure.
Intraprendere vie di fuga dalla violenza e avviare percorsi di emersione, di fuoriuscita, forse di nuova vita, per molte donne sole o in solitudine con la propria condizione. O, almeno, riuscir a far sapere e ad affermare il proprio diritto ad esistere. O anche, avviare percorsi di consapevolezza della propria violenza da parte di uomini che non hanno meno bisogno di un aiuto
Non è poco.
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