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Davide Rondoni: intervista sulle parole
Molto, a Davide Rondoni, deve il mondo della poesia, non solo per le opere scritte che, in tanti aspetti, costituiscono exemplum e termine di paragone per contingenti e successori, ma anche per le molteplici attività e iniziative che per la diffusione e il perpetramento della stessa poesia ha messo in moto in questi anni, con un’attenzione costante al mondo dei giovani, in termini sia di passaggio-di-conoscenza sia di strumenti-di-costruzione.
Tra pochi giorni sarà presente al Festival di Pordenone Legge, e il suo intervento ha un titolo quanto mai affascinante e mitico: “Le parole del 68. Desiderio”. In attesa, allora, di ascoltarlo domenica 23 settembre alle 10.30 presso la Loggia del Municipio, inizio a fargli qualche domanda sul senso di quelle e di altre parole, per le quali lo ringrazio molto fin d’ora.
Per chi scrive, soprattutto in versi, la parola conta, al di là di quali e quanti significati le si attribuisca. Nel mondo poetico di oggi, però, tanti fattori sembrano prevalerle, prevaricarla. È ancora regina, la parola, o è si è fatta ancella di qualche padrone malandrino?
La regina è la realtà, e il mistero il re. Viene prima l’evento del mondo, insomma. La parola è strumento di conoscenza, è viaggiatrice nel rischio, è giullare sapiente, è danza dei sensi e dei significati… La parola cessa di essere importante, in poesia e ovunque, quando invece del reale si servono le ideologie, il potere, il tornaconto… Il mondo poetico (ammesso che si possa attestare l’esistenza di un “mondo poetico”, cosa a cui ho poco interesse) dicevo, il mondo poetico di oggi non è differente nella sostanza da quello di ieri e di sempre: ci sono voci autentiche, ci sono mode, ci sono furbastri, ci sono lettori seri e cazzari, ci sono editori autorevoli e altri che si agitano… Il proliferare della possibilità di chiacchierare in pubblico sembra a volte confondere un po’ di più le acque, ma a uno sguardo attento e libero le voci autentiche, le questioni vitali, le opere belle non sfuggono. La parola deve sempre attraversare i boschi dell’ambiguità per essere sé stessa, umanamente. Ovvero modo di conoscere il mondo – e mai sola, ma sempre in relazione, tessuta ritmicamente con altre-, atto di messa a fuoco del reale. E può esserlo, ed allora è poesia. La poesia è concentrata sulla vita, i piccoli letterati sono concentrati sulla poesia…
Se esistono delle parole per richiamare e descrivere il 68, quali sono quelle con cui potremmo rivolgerci adesso a questo 2018?
Che domandone! Ma accetto la sfida… Una è nascita. Il vero scandalo di oggi è la nascita. Segno della natura umana, che nasce, che come fenomeno individuale non si genera da sé stessa, insomma, la nascita come segno di una umiltà, e di una appartenenza a qualcosa che supera lo stretto cerchio del mio “io”. Poi la parola solitudine. Poi la parola ansia. Tutte parole che hanno a che fare con una fasulla centralità e presunzione dell’ “io”. E poi direi una parola che nessuno dice quasi mai, ma è la parola che inquieta ed è difficile da maneggiare perché siamo in un’epoca distratta e fatalista: destino.
Stare nei tempi e dentro il tempo non è mai cosa semplice. Non lo è per nessuno e niente, non fanno eccezione poeti e poesia. Come vedi dimenarsi i nostri eroi e la loro eroina, in questo frangente di pagine e rete, di penne e di tasti?
La poesia è sempre controtempo e sempre nel tempo. Anche in questo in cui proliferano i canali di scambio di parole. In rete puoi trovare testi bellissimi e minchiate colossali, come nei libri. O come un tempo nei fogli di cartapecora o scolpiti nella pietra. Di certo la parola autenticamente poetica -qualsiasi sia il supporto su cui circola- si oppone a qualsiasi svalutazione o distrazione delle parole. Si oppone a tutto ciò che separa le parole dall’avventura della ricerca del significato profondo dell’universo.
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