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Cultura e virus, un anno più tardi
Un anno fa mi trovavo a fare alcune riflessioni, su questa pagina, sulla cultura digitale. Dopo un anno, forse, si può fare un aggiornamento. Alcune cose si sono confermate nell’autunno del ‘20: i numeri della cultura online sono stati, in sostanza, buoni. Un po’ ha a che fare con la noia delle reclusioni, un po’ con la distruzione sorprendente di ostacoli che la rete realizza: una distruzione di ostacoli tra centro e periferia, ma anche tra pubblico e attore. Entrare in casa dello scrittore o del musicista invece che ascoltarli con il capo reclinato all’indietro osservando l’idolo dal basso verso l’alto: bello. Al contempo: questa stagione che viene programmata con timida speranza quasi tutta in presenza fanno capire come sia mancata l’interazione tra le persone che compongono il pubblico.
Ora, la tentazione sarebbe quella di ritornare a dicembre 2019: il mondo era più bello e riassaporare quello che è mancato per tanto tempo è, sarà, potrebbe essere, magnifico. Sarebbe però una magnificenza molto effimera, che dovrebbe prima o poi fare i conti con una elaborazione necessaria di come questi due anni hanno cambiato il modo di vivere la cultura da un lato, dall’altro con la rimozione che la cultura stessa ha fatto della pandemia.
Fateci caso: in quasi nessun film, quasi nessuna serie, la pandemia ha un ruolo. Questo è semplice a spiegarsi: il mercato chiede alla cultura soprattutto evasione e non riflessione, come durante la Guerra mondiale i cinema davano o film di propaganda o commediole. È normale: le riflessioni serie necessitano della giusta distanza, della percezione di un’alterità e di una frattura, e da questo siamo ancora tutti tragicamente molto lontani. Esistono tuttavia momenti di passaggio storico che alcuni artisti riescono a cogliere più di altri. Arriverà il momento, si spera il prima possibile, dove artisti capaci e coraggiosi riusciranno a percepire quella frattura pur avendo ancora tutto in mente. Roma città aperta è del 1945, Se questo è un uomo del ’47. Ci saranno artisti, o scrittori, capaci meglio di altri di dare una chiave di lettura di questo tedio che pare durare infinito.
Il rischio è, come ho letto una volta sulla pagina di Andrea Cotti, che dopo la pandemia ci sia la pandemia di libri che parlano di pandemia. Credo, e spero, di no: credo che l’appeal commerciale della pandemia potrebbe rimanere basso per un bel po’ di tempo. E qui si ritorna al tema iniziale: la pandemia non ci ha reso né migliori né peggiori, ma ha prodotto delle novità nella fruizione della cultura che sarebbe bene non ignorare. La prima di queste riguarda le potenzialità quasi infinite del microbroadcasting: io mi metto davanti a un microfono a parlare del più e del meno, e avrò un pubblico. La seconda è l’emergere della provincia come pubblico, e in subordine come mercato culturale.
Quest’ultima è, come tutte le buone scoperte, una scoperta dell’acqua calda: in un Paese in cui il principale salone letterario è rimasto a Torino rinunciando alla più centrale Milano, dove i Festival culturali più importanti sono a Mantova, Sarzana, Modena o Pordenone, dovrebbe rimanere urgente l’idea non solo della tutela patrimoniale ma anche dello sviluppo culturale dello hiterland. Per quanto riguarda invece le potenzialità della cultura via internet, il successo delle letture autorganizzate e il sostanziale fallimento di ogni progetto di sistematizzazione devono fare riflettere, una volta di più, di come la rete non sia un succedaneo della televisione. Altra questione importante: è emerso con estrema chiarezza che non è ancora arrivato il momento della monetizzazione di questi contenuti. Prima di mettere un paywall alla cultura online, si deve fare in modo che essa diventi abitudine, nutrimento, riflessione diffusa.
Poi, fra qualche anno, nessuno vi rinuncerà più: e sarà allora che dalla rete potrà venire una nuova spinta anche economica oltre che creativa. L’importante, nel frattempo, è immaginarsi un passaggio più che un rilancio, è continuare a investire sulla qualità delle cose
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