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«Come pesci in un barile», perchè la guerra non venga considerata normalità
«La guerra non può essere considerata normale e non è accettabile non solo per il mio popolo, per il popolo palestinese, per quello siriano o per quello afgano ma per chiunque, per qualunque uomo che viva su questa terra»
«La mia non è una testimonianza politica. Questo è uno degli obiettivi che, sin dal primo momento, hanno animato il mio lavoro» lo dice Youssif Latif Jaralla, autore e regista dell’evento, nel corso dell’intervista che mi ha rilasciato lo scorso 26 agosto in occasione della conferenza stampa di presentazione dell’evento “Come pesci in un barile” che l’Onlus “Voci nel Silenzio” ha organizzato per domenica 29 agosto alle 21, al Teatro di Verdura di Palermo, il cui obiettivo è raccogliere fondi in favore dei bambini orfani di Gaza.
“Come pesci in un barile”, il titolo dello spettacolo, non è un’idea di Youssif ma parte di una dichiarazione che rilasciò, nel corso di un’intervista a Russia Today, Roger Waters, cantautore, polistrumentista e compositore britannico, cofondatore e membro storico del gruppo musicale inglese Pink Floyd, insieme a Syd Barrett, Richard Wright e Nick Mason. Nello scorso mese di maggio, in collegamento streaming, Waters dichiarò: «Questo non è un conflitto ad armi pari. Quando parliamo di Gaza, parliamo di un barile pieno di pesci sul quale gli Israeliani sparano con la loro artiglieria ad alta precisione. Stanno assassinando i detenuti di una prigione a cielo aperto. E’ questo che stanno facendo. Alcuni di questi detenuti cercano di controbattere in qualsiasi modo riescano e occasionalmente hanno fatto ricorso a razzi fatti in casa lanciati oltre le mura della prigione che li contiene e non li si può criticare. Anzi, hanno un obbligo morale di resistere all’occupazione della loro terra da parte di un potere straniero. Quello di Israele è un regime di apartheid impegnato nella pulizia di tutti gli indigeni dalla terra su cui hanno messo gli occhi prima del 1948 e che da allora cercano di colonizzare. Quelli che tra noi criticano lo stato di Israele e la sua politica fatta di genocidio, apartheid e razzismo non sono antisemiti».
Yousif Latif Jaralla è un cantastorie e narratore iracheno che vive in Italia dal 1980, dove si è imposto sia per i suoi spettacoli sui temi della guerra, sull’Iraq e sulle condizioni del Sud del mondo, sia per le tematiche legate alla spiritualità mediorientale.
Come nasce l’idea di questo evento?
«Avevo bisogno di cambiare il linguaggio, l’informazione, di cambiare la narrazione perché quello che non è più possibile accettare oggi è che i vari media trasformano una tragedia in una sterile e strumentale notizia – racconta Youssif Latif Jaralla – che portano a considerare le vittime come numeri. Quello che dimenticano, e questo è inverosimile, è che dietro a quegli sterili numeri ci sono uomini, donne, bambini. Dietro quei numeri c’è carne, sangue e sogni, ci sono sofferenze che non riguarda solo le persone, ma c’è la natura devastata, con la sua anima, con i suoi alberi, con i suoi ulivi, polverizzati e cancellati da strumenti di morte. La malvagità della guerra è, purtroppo, parte integrante delle cattive inclinazioni dell’uomo, di quella spietata abitudine che i problemi vadano risolti con un conflitto e non con il dialogo. Questa è la malvagità umana che porta a ritenere il conflitto armato come “ultima ratio regum” per la soluzione dei problemi e, spesso, assistiamo a conflitti che non si svolgono ad armi pari».
Questo vale anche per la Palestina…
«Parlando della Palestina, a mio giudizio, non è possibile parlare di un conflitto perché questo presuppone che entrambi gli attori abbiano un esercito e i mezzi per difendersi. Nel corso di questi anni abbiamo assistito ad aggressioni continue, attacchi che la Palestina e i palestinesi hanno potuto solo subire non avendo una vera e propria struttura d’interposizione militare».
“Come pesci in un barile” non è, come dicevi, una presa di posizione di parte, quindi…
«Esatto. Sono stanco del linguaggio politicamente corretto e degli slogan e ho deciso di non creare una sorta di comizio di parte. Ho voluto realizzare una sorta di mosaico, un affresco che permetta di capire come vivano nel quotidiano le persone sotto assedio e con loro ciò che li circonda, le case, gli alberi. Uno dei nostri difetti è anche quello di pensare agli alberi come oggetti inerti e disanimati, come semplici pezzi di legno dimenticando che fanno parte della natura e che, quindi, hanno un’anima. La stessa considerazione vale per le case che non sono solo quattro muri e un tetto che ci ripara, un banale cumulo ordinato di pietre, ma sono quello che viene chiamato il focolare domestico, il luogo in cui nasce e si sviluppa la famiglia, con la sua storia, le sue emozioni, le proprie ritualità e quando distruggi una casa di fatto distruggi una famiglia nel suo più profondo intimo. Alberi e case distrutte significano la distruzione di tutto ciò che è amore, tutto ciò che permette all’amore di svilupparsi e crescere. Donne, bambini, anziani. Sembra assurdo ma, una volta, tra i cosiddetti codici d’onore, se possiamo definirli tali, della guerra c’era quello di non uccidere la popolazione inerme ma dirigere il proprio intervento nei confronti delle forze militari con cui era deciso di avere un conflitto armato. Bene, in Palestina non è mai stato così. Da sempre i bambini, le donne e gli anziani sono le principali vittime di questa continua aggressione e con loro le case, la natura che le circonda».
Il tuo è un lavoro più ampio, quindi, che va oltre la Palestina…
«Assolutamente sì. Con questo lavoro voglio e cerco di andare oltre il singolo caso della Palestina, dell’Iraq o della Siria. Voglio lanciare un grido di allarme perché oggi abbiamo accettato che le guerre, i conflitti e la morte facciano parte della nostra normalità. Ma la guerra non può essere considerata normale e non è accettabile non solo per il mio popolo o per il popolo palestinese o per quello siriano o per quello afgano ma per chiunque, per qualunque uomo che viva su questa terra. Siamo carne, sangue e sogni, in tutto il mondo e la guerra non è nient’altro che un fallimento».
All’evento parteciperanno l’attore, regista e autore, Moni Ovadia, la cantautrice Lucina Lanzara, l’attore, autore e regista Gigi Borruso, l’autore, attore e regista Giuseppe Provinzano, la cantante lirica Donatella Gugliuzza, la giornalista Marta Bellingreri, il violinista Mario Bajardi, il professore Giuseppe Barbera, il giornalista e attivista palestinese Karim El Sadi, lo stesso Yousif Latif Jaralla in qualità di cantastorie. Sono previstri inoltre anche diversi contributi video che arriveranno anche da altri artisti, tra cui Salvo Piparo.
“Come pesci in un barile” è promosso dall’Onlus “Voci nel Silenzio” con il sostegno del Sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, della Fondazione Teatro Massimo, del Teatro di Verdura, di Cgil Sicilia, Cgil Palermo, Arci, Sunia Sicilia, in collaborazione con realtà quali il Movimento culturale Internazionale “Our Voice”, Mediter Italia, la Rete Jasmine delle Donne Leader nel Mediterraneo, i Giovani Palestinesi d’Italia, l’associazione “Faro Convention”.
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