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ARIMO e Presenti remoti: intervista a Luca Mastrantonio
«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo.». Inizia così una delle più celebri poesie di Cesare Pavese che, già nel primo e poi subito nel secondo verso, menziona senza perifrasi o sinonimi la “morte”, tema da sempre caro e centrale nella scrittura poetica di ogni tempo. In effetti, se la poesia oltre a essere un genere letterario è anche un’arte e dunque un ponte che mette in relazione la propria intimità con l’esterno e viceversa, mediante una spinta centripeta e centrifuga al tempo stesso, questa non potrà che confrontarsi costantemente con il senso dell’esistere, dal blocco di partenza fino al taglio del traguardo.
E se di morte si parla non può che venire subito alla mente l’Antologia di Spoon River, dove Edgar Lee Masters trasforma ogni testo in epitaffio, per raccontare la vita passata dei residenti dell’immaginario paesino di Spoon River, sepolti ora nel cimitero locale.
La cessazione dell’esistenza diventa, in Pavese come in Masters e potremmo continuare con. moltissimi altri esempi, una forma dialogica con sé stessi e con gli altri, avviata da chi è ancora in vita per tentare di comprendere l’incomprensibile.
È, forse, una riflessione come questa che ha acceso la scintilla in Luca Mastrantonio, affermato giornalista e saggista, dal 2011 al “Corriere della Sera”, oltre che grande conoscitore e appassionato di poesia, per l’ ideazione e la creazione del progetto Presenti remoti, installato presso la Casa degli Artisti di Milano a conclusione di ARIMO, residenza poetica con giovani autrici e autori.
Ne parliamo con Luca Mastrantonio.
Caro Luca, un progetto, il tuo, che ha strettamente a che fare con il tempo, a partire proprio dal nome scelto per indicarlo, Presenti remoti, e conseguenza di ARIMO, altro termine piuttosto evocativo…
Il tempo in questo caso è strettamente connesso allo spazio. Mi sono reso conto che lo spazio che veniva offerto dalla Casa degli artisti aveva bisogno di un’idea di tempo. Un’idea che resistesse alla frenesia della città, che la mettesse in discussione. A Milano non c’è solo un problema di spazi comuni, aperti e di connessioni, ma di tempo, di momenti. La residenza d’artista, perché è così con Mattia Bosco, della casa, che abbiamo vissuto quella dedicata alla poesia, non è solo lo spazio, ma il tempo che ci si passa. E il tempo che ci si passa è tutto, anche se poi deve diventare qualcosa che possa restare, in questo caso dei testi e delle installazioni.
Perché Spoon river?
Per due motivi, entrambi in attrito con il presente semplice, quello della vita economica e sociale. Mi piaceva mettere Milano a confronto con il suo grande passato, e quindi ascoltare i fantasmi di ieri, vedere se il presente è all’altezza, anche solo di rievocarli. E poi perché non c’è futuro vero se non ci si immagina fantasmi in quel futuro, cioè assenti, defunti agli occhi dei posteri. La morte è uno dei grandi rimossi della nostra società e a Milano non c’è tempo per onorare le piccole morti dei piaceri personali né le grandi morti dei tanti invisibili che abitano la città. Ci sono anche i fantasmi tra noi, li attiviamo ogni volta che ignoriamo, e siamo fantasmi ogni volta che ci ignorano. Non che a me dispiaccia del tutto questa dimensione fantasmagorica della vita in città. Ma di Spoon river mi piace la schiettezza brutale con cui i morti ci parlano. E mi sembrava un buona prova per vedere se davvero la poesia è così viva come sembra oggi nella sua versione digitale e sulla scena performativa.
Perché Presenti remoti?
Sui nomi provo a fare un po’ di chiarezza. ARIMO è il nome con cui è nata la residenza, un omaggio alla parola con cui si fermava il gioco nei cortili milanesi nel passato, una specie di time out. Proprio per questa idea di fermarci, un po’ e ragionare, sragionare con la poesia, assieme, ognuno ha rinunciato per un po’, un giorno a settimana, ai propri lavori e percorsi individuali. ARIMO ha pure un legame con il gioco dei dadi, e dunque il caso, l’aspetto ludico, perché a parlare di morti, anzi, a farli parlare, si deve fare i conti con il dadaismo e il surrealismo, insomma i cadaveri squisiti. Presenti remoti è invece il titolo che è stato estratto dalla chat del gruppo, dove chiamavo “presenti remoti” quelli che si collegavano da remoto. Alla fine suonava bene per indicare una dimensione del tempo obliqua, nella modalità in cui oggi si può vivere, da remoto, e poi nel rapporto con i morti, lontani ma vicini, assenze presenti, in certi casi. Dunque Presenti remoti.
Il citofono, nella tua installazione, al posto di porre in essere una chiamata verso i vivi, apre un dialogo con i morti e fa entrare il soggetto fruitore dentro una dimensione fantasmatica tutta milanese.
In effetti funziona al contrario, rispetto a un citofono normale. Nessun vivo ti risponde, nessuno ti dice di salire, nessuno scenderà da casa, nessuno ti dirà di lasciare pure la posta fuori, perché non si apre agli sconosciuti, l’ultima volta hanno rubato… Una specie di juke box di fantasmi, quindi. Di milanese c’è che, come molte città del nord, che non amano mostrare quello che hanno dentro, i cortili per esempio, il citofono è una specie di porta di accesso, tutta vocale, a volte anche video, tra il dentro e il fuori.
Da dove nasce questa idea del citofono? Racconti, per chi non ha visto il progetto, come è stato costruito e composto?
Nella mia testa ARIMO, intesa come Spoonr river di Milano, e dunque come Presenti remoti, è nata da due fantasmi. Quello di Giorgio Gaber, che ha abitato in una via dove ogni tanto passo, e mi chiedevo “pensa come deve essere aver avuto il signor G in condominio”, sarà stato divertente, immagino. E poi, chi altri? Quindi l’idea di pensare a una Spoon river di Milano è nata un po’ con questa idea del citofono, che in realtà, con il tempo, è diventato l’oggetto che ben rappresenta il progetto, e conviene accennare a come l’abbiamo realizzato. Ogni residente ha scritto delle poesie in stile Spoon river, in cui parla in prima persona un fantasma di Milano. Alcune di queste sono state lette e registrate e inserite dentro un software nel citofono, venendo azionate dal pulsante, come se davvero rispondesse quel fantasma. Mentre questa idea prendeva corpo, mi rendevo conto che un citofono con le voci registrate di poeti è un’antologia fisica, dove il frontespizio, la pulsantiera, è l’indice della stessa antologia, una unica pagina. E allo stesso tempo, con le lucine dei nomi e dei pulsanti, con la sua distruzione a rettangoli ordinati su sfondo grigio, è anche la piantina di un cimitero elettrico pieno di voci. Per la parte tecnica è stato fondamentale l’aiuto dell’artista Paolo di Giacomo.
La poesia, sulla base della tua esperienza e anche alla luce della residenza ARIMO, oggi è più un parlare ai vivi o ai morti? È ancora qualcosa capace di “chiamare”, di “avviare un discorso su”?
Questa esperienza è stata un parlare dei morti ai vivi, facendo parlare i morti, con la voce interiore, a volte anche fisica, dei vivi. Sarebbe fantastico se la poesia riuscisse anche a parlare dei vivi ai morti, ma credo sia impossibile. Riguardo la chiamata sì, alla call della Casa degli artisti hanno partecipato davvero in tanti, tra le candidature che a questo giro non sono abbiamo preso c’erano proposte interessanti. Riguardo avviare un discorso sulla poesia credo il problema sia la durata, ci sono tanti discorsi, ma spesso sporadici.
Ci saranno sviluppi successivi sia per la residenza che per l’installazione? Sei soddisfatto dei risultati del progetto, in termini sia umani che di feedback ricevuti?
Ci sono festival, locali e alcune istituzioni che vorrebbero ospitare alcune delle installazioni. Per le poesie una strada percorribile è il libro, anche se non era l’obiettivo iniziale. Ci sono altri progetti, legati a una versione più di scena, performante, e siamo aperti a qualsiasi proposta. Sul piano umano è stata un’esperienza sorprendente, perché il tempo passato assieme riusciva ad essere leggero, perché libero da tutto il mondo che lasciavamo fuori dall’atelier dove ci siamo incontrati, e intenso, pensante, perché eravamo concentrati sullo scrivere assieme, leggerci, confrontarci e giocare… e poi bere, mangiare, ballare e giocare a ping pong.
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