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Anni fa, quando eravamo molto più vecchi di adesso

17 Maggio 2021

L’ennesima moglie, l’ennesima figlia che gattona per il soggiorno, l’ennesimo album. Sono passati 30 anni da quando il carosello è iniziato, e Bob Dylan si sente per la prima volta vecchio. Alla cerimonia dei Grammy Awards del 1991 Jack Nicholson gli consegna un premio alla carriera, come si fa con i pensionati. In realtà il ragazzo di Duluth ha solo compiuto 50 anni, ha una crisi come molti, a quell’età, gli ultimi dischi sono noiosi, lui beve talmente tanto da trovarsi a volte in difficoltà sul palco.

Al funerale di Roy Orbison, un paio d’anni prima, si è per la prima volta confrontato con il fatto che gli amici possano sparire per sempre. Nel 1988 lui, Roy ed un gruppo di amici segreti avevano formato una band straordinaria, di sei chitarre, chiamata i Traveling Wilburys, ma la morte di Orbison aveva annientato il sogno, cancellata la tournée, spento le risate di queste stelle della musica e dell’arte moderna che, per una stagione, giocando come ragazzini, avevano creato uno scherzo divenuto realtà e lo avevano portato in cima alle classifiche di vendita di tutto il mondo.

Sul palco del Madison Square Garden di New York, 16 ottobre 1992, con George Harrison, Johnny Cash e Roger McGuinn

E poi era venuta la delusione terribile seguita alla fine della Guerra Fredda, quando in molti credemmo che ora sarebbe scoppiata la pace, e poi ci furono i massacri della Jugoslavia e la guerra in Iraq. Alla premiazione di quel Grammy, Dylan aveva sconcertato tutti, citando il Rabbino Samson Raphael Hirsch: “Figliolo, è possibile che tu diventi così contaminato da questo mondo che persino tua madre e tuo padre ti abbandoneranno. Se ciò dovesse accadere, solo Dio crederà nella tua capacità di aggiustare la tua strada”. Un modo come sempre screanzato e spocchioso per dire che a lui quel premio faceva schifo.

Ma le cose sono andate diversamente. Una domenica pomeriggio Tom Petty e George Harrison erano passati a trovarlo con una cassa di birra, ed avevano spento la serata con la brezza dell’oceano sul viso. George gli avrebbe detto: “Hai scritto talmente tante canzoni, che ce ne sono alcune che nessuno ancora ha mai avuto il tempo di capire. Dovresti essere più accurato, non scrivere ancora come trent’anni fa, in preda ad un delirio produttivo, ma parlando a qualcuno che non sia più quel giro di intellettuali eruditi del folk newyorkese di allora, ma dei ragazzi pieni di entusiasmo che si affacciano solo oggi all’intelligenza”.

20 febbraio del 1991: Jack Nicholson consegna il Grammy Awards alla carriera a Bob Dylan

Durante la notte nasce il piano. Va bene, facciamo una data, suoniamo le canzoni meravigliose perdute, e le suoniamo in modo che i ragazzi le capiscano, quindi come le suonavano i Byrds – che, negli anni 60, imposero Dylan a milioni di ragazzini che non capivano il folk ma amavano il country-rock e la musica beat. Inutile chiedersi cosa ne pensi Roger “Jim” McGuinn, il leader dei Byrds: è uno dei musicisti più stupendi e più dimenticati di quegli anni, e ne soffre moltissimo. Ci sta. Ed ha anche una canzone che, secondo lui, è il simbolo del progetto: “My back pages”, le mie vecchie pagine.

È una canzone che Dylan non suona in pubblico dal 1966, ovvero da quando aveva deciso di impugnare una chitarra elettrica e di smettere con il folk. L’aveva scritta a 23 anni e, allora, Joan Baez l’aveva definita “un capolavoro di presunzione”. Un errore: gli anni, spiega Jim, hanno dimostrato che la canzone fosse giusta, e che sia oggi la canzone più importante per Bob di fronte all’orrore di invecchiare, con il suo ritornello che recita: “Eh, ma ero molto più vecchio, allora, oggi sono molto più giovane di così”, rovesciando l’acquisizione della saggezza non legata all’età, ma alla passione.

Da sinistra: Bob Dylan, Tom Petty, Benmont Tench, Roger McGuinn, Mike Campbell, George Harrison e Jeff Lynne alle prove per il Concerto di New York

È una canzone stupenda, che i Byrds avevano portato al successo un quarto di secolo prima: “La carcassa del pregiudizio fece un balzo e urlai: distruggi tutto l’odio, ma era un sogno che dal mio cranio diceva che la vita fosse in bianco e nero, in qualche modo la favola dei moschettieri ce l’hanno inculcata nel profondo… eh, ma ero molto più vecchio, allora, oggi sono molto più giovane di così”. Ed ancora: “Come un soldato, ho puntato il mio indice sui bastardi che insegnano, senza capire che sarei diventato mio nemico nell’attimo stesso in cui anch’io avessi predicato, la mia esistenza era guidata da barche confuse, ammutinate da prua a poppa”, ma questo perché, per l’appunto, era ancora troppo vecchio per la saggezza.

Il concerto si è tenuto al Madison Square Garden di New York il 16 ottobre del 1992 – la data libera più vicina al 25° anniversario della morte di Woody Guthrie, ed è stata una notte indimenticabile di country-rock. Una notte che poi ha influenzato i dischi successivi di Bob, che ha messo da parte la chitarra elettrica ed è tornato al sound delle origini. A cantare My back Pages c’era la crema degli anni del sogno: Bob Dylan, George Harrison, Eric Clapton, Neil Young, Roger McGuinn, e dietro di loro suonavano i ragazzi di Laurel Canyon: Jim Keltner, Levon Helm, Booker T., Steve Cropper, Donald Dunn, e poi Chrissie Hynde (Pretenders), Stevie Wonder, Al Kooper, Johnny Cash, Eddie Vedder (Pearl Jam), Ron Wood (Rolling Stones), Lou Reed.

Bob Dylan non sorride mai. È serissimo, specie quando i Pearl Jam lo accompagnano in una versione straziante e metallica di “Masters of War”. Ma non è un pensionato. È uno degli autori più ispirati di poesie degli ultimi 80 anni. Già, perché tra pochi giorni, il 24 maggio, soffierà su 80 candeline, ed anche se vi è antipatico, se non capite i suoi testi, se vi sembra stonato, sappiatelo: un vero artista, come lui, nasce una volta al secolo, e sarà come lui vanitoso, superbo, scontroso, contraddittorio, e magari mai uno che invitate volentieri la sera a cena. Ma quando siete soli, e le Parche si avvicinano stridendo, le sue parole vi aiuteranno come navi confuse. Ma allora anch’io ero vecchio, non giovane come lo sono adesso.

 

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