Eventi
1956, quando il comunismo perdette molta della sua credibilità
Forse pochi fatti storici, come lo è stato l’arrivo dei carri armati sovietici in Ungheria per soffocare la rivolta contro il regime comunista, sono rimasti impressi nella coscienza della gente dell’occidente democratico; quell’evento traumatico ha, infatti, bollato d’infamia quel “sol dell’avvenire” che aveva affascinato idealisti e milioni di lavoratori vittime dello sfruttamento. Luciano Canfora, notissimo filologo classico e intellettuale raffinato, con “1956, l’anno spartiacque”, ripubblicato da Sellerio, con la puntualità dello studioso ci offre di quelle vicende una chiave di lettura che consente di andare al di là dei fatti stessi inquadrandoli nel contesto della crisi del comunismo, apertasi drammaticamente con il famoso XX congresso che sancì l’avvio della destalinizzazione ma, nelle complesse circostanze che riguardano la fine del colonialismo europeo con la sconfitta francese in Vietnam e la crisi del canale di Suez. Eventi che si collocano tutti in quell’anno 1956 che appunto assume il riferimento di “spartiacque”, data di cambiamenti epocali. La crisi del comunismo, che si era per anni immedesimato nella figura del “piccolo padre” – l’uomo simbolo della vittoria contro il nazismo –, era già iniziata all’indomani della morte della morte di Stalin. Il gruppo dirigente, che era lo stesso che aveva sostenuto il leader sovietico, si faceva infatti portatore di un nuovo modello di relazioni internazionali improntato alla ricerca di collaborazione con il mondo capitalista archiviando così la politica della contrapposizione, imposta dallo stesso Stalin, dettata dalla ossessiva convinzione che la guerra non poteva che essere l’esito ineluttabile della lotta fra sistemi. Ma l’esternazione di questo nuovo corso dovette attendere proprio il XX congresso allorquando gli errori dello stalinismo e, il cosiddetto culto della personalità che il leader comunista aveva alimentato, divennero oggetto di un documento, “il rapporto segreto”, il cui testo originale è ancora oggi in parte sconosciuto. Da quel momento Kruscev, segretario del PCUS, e quanti costituivano il gruppo dirigente del partito, avviarono una azione tesa al rilancio internazionale dell’URSS e al riallaccio dei rapporti anche con quel nuovo blocco formato dai cosiddetti “paesi non allineati” che vedeva insieme l’eretica Jugoslavia di Tito, l’India di Nehru, l’Egitto di Nasser. Quel congresso, e le parti del rapporto che si conobbero, ebbero una ricaduta incredibile nel mondo comunista, sia nei paesi satelliti, sia nei partiti marxisti del mondo occidentale. La demonizzazione di Stalin, per quanti avevano visto in lui il riferimento sicuro e la guida indiscutibile, era tuttavia difficile da accettare e, non è un caso, che Canfora riporti uno stizzito richiamo di Pietro Nenni, il più stalinista dei socialisti, ad Amendola sulle conseguenze che quanto stava avvenendo a Mosca poteva avere sul mondo della sinistra marxista. Non aveva torto Nenni se, ben presto fra i paesi satelliti si manifestarono i primi segni di rifiuto dell’egemonia sovietica, mentre nel mondo occidentale qualche intellettuale cominciò a riflettere e a prodursi in spesso imbarazzanti distinguo. La rivolta ungherese nasce in questo contesto e in un paese che, rispetto a tutti gli altri satelliti dell’URSS era stato alleato del nazismo e che ne aveva condiviso le scelte fino in fondo. Una rivolta, quella ungherese, che aveva trovato sostegno, “a parole”, da parte dell’Occidente che attraverso strumenti come le comunicazioni di “Radio Europa libera” che promettevano sostegno, e un ambiguo conforto, così traduciamo il discorso di Canfora, nelle parole del pontefice Pio XII. Di quella rivolta e del suo debole protagonista, si parla di Imre Nagy, Canfora ne rivela le contraddizioni, si sofferma sugli eccidi che i rivoluzionari commisero a spese dei comunisti, ma lo fa con una certa moderazione senza sposare quella versione comunista che fa degli eccidi il motivo dell’intervento sovietico, e racconta in termini problematici della lettera di Palmiro Togliatti ai dirigenti comunisti interpretata come un vero e proprio invito a procedere con l’intervento militare. Certo quell’intervento ci fu e fu un trauma per il mondo comunista, in Italia molti intellettuali abbandonarono il partito e Togliatti ebbe molto da fare per districarsi da quel garbuglio in cui l’azione repressiva dei sovietici l’aveva cacciato. Per anni fu una ferita aperta di cui il mondo comunista non fece lezione visto che, una decina d’anni dopo, si ripeté l’errore con la repressione della rivolta di Praga. Canfora, pur stigmatizzando l’intervento, tuttavia rileva una aspetto, per lui emblematico, e cioè il fatto che a spingere per la rivolta furono gli occidentali che, però, nel momento in cui dovevano assumere la responsabilità di offrire il proprio sostegno, si tirarono indietro lasciando i rivoltosi in balia di forze, i carri armati sovietici, che non potevano essere contrastate. L’Ungheria fu lasciata al proprio destino e di questo, a dire di Canfora, per formulare un giudizio sereno, bisogna pur prendere atto.
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