Cinema
Weekend: la normalità di amare
Parlare d’amore non è mai un’operazione scontata ed è, nell’imperante cinismo di una certa intellighenzia, quasi un atto di rivolta. Parlare d’amore però è difficile perché si rischia di cadere nei clichès, di lasciarsi andare ad una retorica melodrammatica popolata da colpi di scena preannunciati dall’inquadratura d’apertura del film. Buonismo, sentimenti omogenizzati per emotività sull’orlo del collasso. Mai come ora però le persone sentono l’urgenza di un racconto che sappia dar voce a quell’ammasso indistinto di sensazioni alle quali fatichiamo ad attribuire la definizione di amore, perché ci hanno insegnato – il cinema in primis – che l’amore è un’altra cosa.
Di Weekend si è parlato molto in queste settimane, soprattutto a causa degli anatemi della Cei, sempre molto attenta a quanto avviene sugli schermi e molto meno a quanto accade dietro i sacri paramenti. Immorale, diseducativo, indecente. Sgombro immediatamente il campo: in questo film non c’è nulla di osceno o indecente, ma c’è molta trasgressione. La trasgressione però non passa dall’ostentazione del sesso, dalla costante presenza di droghe e alcool o dalla – supposta – dubbia morale dei protagonisti: la vera trasgressione risiede nel desiderio di contatto fra due individui che provano una profonda e dolorosa solitudine. Circondati da amici, giovani, belli, i protagonisti si caratterizzano soprattutto per la loro solitudine esistenziale e per l’incapacità di trovare connessioni profonde con quel mondo del quale dovrebbero essere protagonisti.
Non ci sono tracce di marginalità o esclusione, il tema dell’omofobia è solo accennato e subito liquidato in poche sequenze. Sostituendo uno dei protagonisti con una ragazza il risultato sarebbe lo stesso (con buona pace per la Cei, che ringraziamo per aver portato agli onori delle cronache un film che altrimenti sarebbe stato relegato nell’italico dimenticatoio): non si esce dal cinema colpiti dalla visione di un mondo “altro”, ma turbati dalla descrizione delle nostre vite, delle nostre paure, del nostro bisogno di essere accolti, capiti e amati. In un preciso punto del racconto non ho potuto fare a meno di ricordare, per quella che è stata più di un’impressione momentanea, la scena finale di Colazione da Tiffany, il momento in cui Paul obbliga Holly a guardare in faccia la verità e svela tutte le fragilità e le paure che si nascondono dietro la sua pretesa di essere una donna indipendente che non appartiene a nessuno.
Sono passati più di 50 anni e le domande che si pongono i protagonisti, per quanto aggiornate, complicate da un panorama relazionale sempre più complesso e privo di punti di riferimento, sono rimaste le stesse: chi siamo, come possiamo definirci come individui, che “prezzo” diamo alla nostra indipendenza, quanto bisogno, quanto desiderio abbiamo di ritrovarci in qualcun altro?
Andrew Haigh, intriso d’immaginario postmoderno – dalla splendida descrizione delle periferie ai racconti della vita notturna, passando per i cammei d’interno piccolo borghese e le macchiette tragressive, superba imitazione di loro stesse – porta con sé l’immaginario romantico migliore del Novecento cinematografico descrivendo, in modo tenero, complesso e con infinita dolcezza le gioie e i dolori che solo l’amore può provocare. Un amore unico e banale come tutti gli altri. E forse in questo risiede il germe più pericoloso del messaggio di Weeekend: non ci sono differenze. Siamo noi, nudi e spaventati di fronte a un sentimento che ci pone, inermi, nelle mani di qualcun altro.
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