Cinema

Vite difficili. Tre grandi film che raccontano il nostro paese

11 Luglio 2022

Se è vero che la commedia all’italiana ha saputo almeno in parte raccontare la storia del nostro paese quali potrebbero essere alcuni titoli ideali che meglio rappresentano l’evoluzione dell’Italia dal dopoguerra al presente? Intendendo con presente quello contenuto nei titoli che mi appresto a suggerire; una selezione ristrettissima e soggettiva, suscettibile di aggiunte e approfondimenti. Ma, personalmente, se dovessi tirare fuori dal mazzo tre titoli, non avrei dubbi nella scelta. Questi film sono “Una vita difficile” (1961, Dino Risi), “Il padre di famiglia” (1967, Nanny Loy) e “C’eravamo tanto amati” (1974, Ettore Scola). Benché si tratti di una scelta personale non ho molti dubbi che questi tre film rappresentino perfettamente il modo di raccontare l’Italia del dopoguerra, grazie alla loro struttura che prosegue di decennio in decennio. Ma quali sono i punti in comune e le differenze tra questi tre titoli?

Nel 1961, ai piedi del boom economico, Risi realizza il suo capolavoro assoluto. La storia racconta di una coppia, conosciutasi grazie al fato che porta Silvio ed Elena a incontrarsi, grazie al fatto che Silvio, partigiano, trova rifugio nella pensione della madre della ragazza; la quale lo salverà da un soldato tedesco che si era insediato nell’alberghetto e aveva scoperto che Silvio era un rifugiato. Da questo episodio Silvio ed Elena, affrontando tutti i pregiudizi e lanciandosi nell’avventura sentimentale in primis e politico-esistenziale poi, attraverseranno tutto il dopoguerra sino al nascente boom. Un racconto perlopiù drammatico, che vede Silvio affrontare costantemente la disfatta dei propri ideali, pur esortato da Elena, che lo spinge addirittura a tenare la laurea come architetto. Dopo tante umiliazioni, Silvio accetterà l’offerta dell’industriale Bracci (Claudio Gora), scoprendo però di esserne diventato il valletto. Alla fine del film Silvio si riscatterà dalla situazione in cui era finito, con una memorabile scena, tra le più amate del repertorio del grande attore Romano (e che non svelo qui, per chi non lo avesse mai visto). Il film racconta non solo le vicissitudini di una coppia che vuole essere coerente con gli ideali della resistenza ma a fianco fa scorrere alcune tappe importanti della futura repubblica. Dalla ricerca dell’oro di Dongo, al referendum monarchia-repubblica (la scena della cena dove la coppia viene raccattata per strada da un conoscente di origine nobile per non essere in tredici a tavola) sino al rampantismo vincente di un paese che dopo un decennio di ricostruzione si avventurava nella sfrenata corsa alla ricchezza. In questo film Sordi dipinge uno dei ritratti di italiano più riusciti della sua carriera, lasciando nel cassetto buona parte del suo repertorio comico, per una figura drammatica e patetica, seppur con momenti di ilarità. Ben accompagnato da una splendida Lea Massari, nel ruolo di Elena, figura femminile forte e non compromessa.

 

E proprio di figura femminile come di referendum monarchia-repubblica si parla nel film di Nanny Loy; un trait d’union tra le due pellicole, in quanto il film si apre con i tafferugli avvenuti durante lo spoglio delle schede del referendum. Marco (N. Manfredi) architetto socialista , mentre cerca di saltare su un furgoncino per salvarsi dalla celere, incontra Paola (L. Caron), monarchica. I due si innamorano, a dispetto delle famiglie, che non vedono di buon occhio l’unione. Già dalla cerimonia nuziale abbiamo a fuoco un modo di vedere l’Italia che si evolve: Marco accetta una cerimonia cattolica ma non accetta i sacramenti in quanto ateo. Questo compromesso si ribalterà nel corso del film, con la trasformazione degli ideali di Paola. Benché il titolo faccia pensare a Manfredi come figura centrale, è in realtà Paola la vera forza motrice della loro esistenza, interpretata da una a dir poco magnifica Leslie Caron, sempre lì lì a rubare la scena al pur splendido Manfredi. Marco, che fa l’urbanista democratico e lavora per un’associazione che si oppone alla cementificazione selvaggia, cerca di risolvere le crisi esistenziali, economiche e sentimentali in chiave egoistica. Cerca rifugio in un’amante (C. Auger), sta quasi per accettare un lavoro per un’impresa privata, dissuaso da Paola in extremis, accusa la moglie di avergli tagliato le ali nella riuscita di una carriera anche a causa delle non desiderate nascite di quattro figli che, educati modernamente col metodo Montessori, sono quattro angeli scatenati. Il film vede un Loy in stato di grazia, capacissimo nel gestire le scansioni temporali con accenni veloci ma penetranti (come la sequenza in cui si assiste alla proiezione di una panoramica su Roma sventrata dal cemento). Alla fine l’obbiettivo passa da Marco a Paola, la quale ha sacrificato tutto per la famiglia alla quale si aggiunge un cameo sapidissimo di Ugo Tognazzi come anarchico venditore di abiti che si insedia nell’ambito familiare. Una parte scritta per Totò che purtroppo morirà a riprese appena iniziate. Benché relegato a piccole apparizioni, il personaggio dell’anarchico outsider ha modo di spostare l’attenzione sulla figura della donna, la quale, al termine del film si rivelerà la vera eroina del racconto

. Ritroveremo Nino Manfredi in “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola.. Il film, uno dei capolavori del cinema italiano, dopo un introduzione ambientata nel presente, parte come in “Una vita difficile” dalla storia partigiana di tre amici, Antonio, Ganni (V. Gassman) e Nicola (S. Satta Flores); tre destini differenti, il primo diventerà portantino d’ospedale con mille e più battaglie sociali alle spalle e di fronte, il secondo si rimangerà gli ideali diventando un ricco palazzinaro, unendosi a un costruttore lestofante e fascista (un immenso Aldo Fabrizi), sposandone la brutta figlia (G. Ralli) che avrà un’evoluzione fisica e intellettuale che le permetterà di capire l’essenza corrotta del marito. Il terzo è  professore di liceo, un tipo di intellettuale e critico cinematografico gramsciano, che lascia il paesello del sud per gettarsi nell’avventura intellettuale (ma anche per mollare il fardello di moglie e prole a casa in quel di Nocera inferiore). Ciò che unirà i tre personaggi non sarà solo la passata storia di lotta partigiana ma il comune amore per una donna irresistibile (S. Sandrelli, meravigliosa come non mai). La sua Luciana, sensuale, languida ma allo stesso tempo forte, è uno dei ritratti più forti del nostro cinema italiano, per l’attrice è secondo solo dopo l’interpretazione in “Io la conoscevo bene” di Pietrangeli. I punti in comune con le altre pellicole sono pronunciati, dalla figura della donna che in tutti e tre si dimostra più coraggiosa del maschio. In più Scola riesce a tratteggiare anche una seconda donna, la Elide moglie maltrattata da Gianni, e la sua apparizione è assolutamente indimenticabile e basata su un’idea geniale. Anche nel film di Loy abbiamo una “seconda donna”, il personaggio della Auger; indubbiamente simbolo di una femminilità modernizzata, ma Elide resta impressa nelle nostre enti quasi quanto la Luciana della Sandrelli. Per non dire dell’excursus storico di un quasi presente, per Risi e Loy, e di un “di più passato” appena dietro alle spalle per Scola. Oltre che a una valenza metacinematografica che negli altri titoli non è presente, valenza che suona con “col senno di poi” e porta il film di Scola a una riflessione, moderata, sul linguaggio del cinema. Ma “C’eravamo tanto amati” ha dalla sua un maggiore afflato epocale; luoghi, situazioni storiche, momenti topic di costume e spettacolo (vale per tutti il cameo di Mastroianni mentre gira la “Dolce vita” mentre Antonio è presente  in qualità di assistenza medica per il set. Inoltre il film di Scola abbraccia idealmente il suo cinema col cinema del neorealismo, tant’è che la scena in cui Nicola partecipa a “Lascia o raddoppia” come esperto di quel momento della nostra cinematografia è un mcguffin narrativo portante e un’occasione per il regista di celebrare Vittorio De Sica. In conclusione si tratta di tre film indispensabili, girati con sagacia e maestria e attenti alla mente come al cuore e che restano tutt’ora esempi validissimi e per nulla superati del modo in cui la commedia all’italiana migliore ha saputo raccontare un paese, il nostro, che oggi vive delle rovine di tutti gli errori che sono stati commessi durante gli anni in cui quei film sono ambientati.

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