Cinema

Lo sguardo del documentario per recuperare la consonanza del reale

5 Dicembre 2015

La contemporaneità in cui ci muoviamo è sempre più composta dalla rappresentazione simultanea di ciò che accade al suo interno.  Attraversiamo le nostre giornate immersi in un’esplosione continua di foto, video, suoni che ritraggono in tempo reale quel che accade a noi e alle persone che sono con noi. Si tratta di un magma, privo di confini, che si muove oggi prevalentemente attraverso la rete, dove il privato, il pubblico, il serio e il faceto si amalgamano in modo sregolato. Questo moto scomposto, questa sregolatezza e questa velocità perenne, finiscono per devitalizzare l’intensità degli oggetti ritratti e per annientare il rapporto di necessità che intercorreva, all’origine, tra quelle immagini e la realtà stessa.

Possiamo assistere ai frammenti delle registrazioni realizzate con i telefonini o con le telecamere di servizio, degli attentati del 13 novembre a Parigi e poco dopo possiamo scorrere la timeline di un video musicale e nel frattempo ricevere il video di qualche amico che ci invita a visitare un angolo della sua giornata. Il fatto che tutte queste immagini si susseguano con tanta casualità e tanta tempestività ai nostri occhi, le une dopo le altre o addirittura le une in contemporanea alle altre, ci impedisce di elaborarne il senso, di acquisirle come forme di nuova conoscenza e di farne reale esperienza.

Perciò, emerge oggi più che mai la centralità della funzione del documentario per quanto concerne l’orientamento dello sguardo che porta con sé. Al di là della qualità delle immagini, siamo di fronte a una delle questioni cardine nel discorso sull’impoverimento dello sguardo a causa dell’assuefazione a immagini ormai quasi sempre scadenti, di bassa qualità e prive di una reale competenza alle spalle – emerge oggi più che mai la centralità della funzione del documentario per quanto concerne l’orientamento dello sguardo che porta con sé. I materiali audiovisivi utilizzati possono essere anche i medesimi che siamo soliti incontrare nel magma quotidiano di produzioni e riproduzioni compulsive, ma è la definizione di una coerenza interna che prende corpo nella relazione che s’instaura tra un’immagine e l’altra, a produrre significato e a rendere l’immagine documento, testimonianza del reale.

Sono la presenza di una regia, di uno sguardo consapevole, assieme alla definizione di una grammatica interna e di una sintassi a fare la differenza o, forse addirittura, a fare di quell’immagine, realtà in quanto corpo complesso e non banalmente superficiale. Questo significa che in un momento in cui subiamo e agiamo questa continua sovrapproduzione di materiali audiovideo, che ha completamente disorientato la nostra percezione del reale, il documentario finisce per essere uno strumento necessario per ristabilire un ordine di prospettive capace di raccontare lo spessore e la complessità di quel che si vuole indagare.

In Italia il documentario è a lungo stato percepito come un prodotto di serie B, lontano dal cinema vero e proprio. Distante da altri paesi europei come la Francia, dove il cinema del reale ha potuto godere di un’impostazione culturale comprensiva di uno sguardo storicamente più ampio. Questo ha fatto sì che non si sia mai sviluppato un dispositivo produttivo capace di soddisfarne le necessità.

L’assenza pressoché totale di un sostegno strutturale ha costituito un punto di debolezza profondamente invalidante, che tutt’oggi mette a dura prova la realizzabilità di molti progetti. Nello stesso tempo, ha favorito la creazione di spazi creativi altrimenti inesplorabili. Lontano dalle necessità e di conseguenza dagli obblighi del mercato, il documentario ha dunque potuto muoversi in una dimensione più libera. Oggi, in un momento in cui il nostro cinema si trova intrappolato tra le maglie di un orizzonte consumato, il documentario sta diventando epicentro inaspettato di nuova linfa, immettendo nel circuito creativo frammenti di realtà che sprigionano nuove possibilità non solo narrative, ma anche e soprattutto di linguaggio.

Negli ultimi anni le trasformazioni urbane, le contaminazioni culturali, i processi migratori, le condizioni lavorative degli operai, le nuove forme di lavoro precario, mettendo al centro piccole e straordinarie storie d’umanità, hanno fatto il loro ingresso sul grande schermo proprio grazie al documentario.  Il circuito urbano raccontato nel Sacro Gra di Gianfranco Rosi, a cui è stato conferito il Leone d’oro in occasione della 70esima. Mostra internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, ha aperto la strada del cinema del reale al grande pubblico.

Questo passaggio decisivo, ha dunque consentito l’accesso alle sale a documentari importanti come Dal profondo, il lavoro di Valentina Pedicini, dedicato all’indagine della condizione operaia nella contemporaneità raccontando luci e ombre del sottosuolo delle miniere del Sulcis, a Bella e perduta di Pietro Marcello dove si mette in scena una poetica esistenziale in cui la salvezza del declino dell’umano non è nel post umano quanto più in una forma di cura che riparte dalla natura, oppure ancora a 87 ore, l’ultimo lavoro di Costanza Quatriglio dedicato alla banalità del male che continua a regnare in alcuni contesti che dovrebbero essere di cura.

Se quindi le sale cominciano finalmente ad accogliere il cinema documentario, il circuito privilegiato di riproduzione, confronto e diffusione, continuano ad essere i festival. In tal senso Visioni dal mondo Immagini dalla Realtà, il Festival Internazionale del Documentario organizzato da UniCredit Pavilion e Franckieshowbiz, in calendario dall’11 dicembre a Milano, si inserisce in un percorso inedito ed innovativo capace di coniugare una visione culturale e produttiva all’interno del medesimo sguardo. E si pone così come punto di riferimento per una diffusione di una proposta culturale trasversale e fuori dagli schemi precostituiti,

La prospettiva che genera questo tipo d’iniziative è quella dell’ideale incontro tra ambiti e mondi spesso lontani e staccati l’uno dall’altro, con Visioni dal Mondo UniCredit Pavilion non si limita a concedere uno spazio e a produrre l’ennesimo festival ma riconnette un dialogo troppo spesso mancato e oggi necessario in questo tempo esiziale e complesso. Impresa e cultura ritrovano in un terreno comune di scambio e confronto la percezione del reale superando le categorie della narrazione per una presa d’atto necessaria ad un discorso d’innovazione che come tale coinvolge tutti gli ambiti essenziali dell’esistenza tra ostacoli e impreviste sorprese.

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In copertina, un fotogramma di “Pequeñas mentiras piadosas” di Niccolò Bruna,
in concorso al Festival Internazionale del Documentario, 2015

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