Cinema
Violenza e Immaginario (parte 2) – La Posta del Cigno Nero
Caro Cigno nero,
ti scrivo in merito ad una riflessione fatta sulle vicende di cronaca di questi giorni. Il tema è: sopraffazione e violenza. Mi interrogavo sul fascino che esercitano sull’uomo, basti pensare al mito dell’eroe positivo della cinematografia che, esercitando violenza e sopraffazione, sgomina “orde di cattivi” suscitando emozioni di approvazione e ammirazione nello spettatore. Per spiegarmi, è come se la violenza, per quanto aborrita da tutti “sulla carta”, ci seducesse intimamente (o ancestralmente, o primitivamente) dettando solo un confine etico su motivazioni e/o squilibrio delle parti e non sull’atto in sé deplorevole.
Insomma, ho avuto la percezione che ci sia nella società una specie di doppia natura, una parte logica che rinnega la violenza e una parte più inconscia, primitiva, che ne subisce il fascino. Cosa ne pensa il Cigno Nero?
Luisko
Caro Luisko,
La nostra avversione nei confronti della violenza intreccia il piano razionale con quello emotivo: se con la logica giudichiamo sbagliata la violenza, con la compassione (emozione sociale ampiamente sperimentata fin dalla nascita in un ambiente accogliente) possiamo riconoscere l’altro come nostro simile ed essere così portati, più che alla sopraffazione, ad aver cura di lui.
Detto ciò, alzi la mano chi di noi, esasperato dall’ennesima ingiustizia, non ha almeno una volta immaginato scenari di vendetta a suon di pugni o parole che diventano proiettili.
Ora, è proprio in rapporto all’immaginazione che la violenza assume sfaccettature particolari, attraverso la trasposizione cinematografica cui fai riferimento. Da Arancia Meccanica di Kubrick ad Assassini Nati di Stone, in cui viene sfacciatamente rappresentata sotto forma di perverso edonismo, diventando addirittura creativa, che sia offerta allo stato puro o problematizzata, tanti e diversi sono i modi in cui la violenza va in scena al cinema. La rappresentazione cinematografica, grazie all’illusione del “come se”, diventa un “simulatore di passioni”, che ci permette di identificarci con i personaggi e le storie, producendo su di noi un effetto reale. Ma, allo stesso tempo, nella magia del cinema la violenza è depurata da rischi e sensi di colpa per lo spettatore, che sperimenta per immedesimazione l’onnipotenza del tutto possibile. È nel potere perciò il lato seducente della violenza, che a livello atavico ci fa desiderare l’assenza di limiti per elevarci al di sopra della distinzione tra morale e immorale, giusto e sbagliato; mentre a livello inconscio, rappresenta quel proibito che è da sempre appetibile. La domanda è: esiste una differenza tra potere esercitato come mezzo per ottenere qualcosa e potere fine a se stesso?
Poiché la persona violenta disconosce il mondo così com’è e le sue relazioni, la violenza, nelle sue intenzioni, si presenta come un tentativo di estrema semplificazione della realtà. Per Sartre, usata come mezzo per eliminare tutti gli ostacoli, diventa fine, che a sua volta non può essere raggiunto senza mezzo, cioè ancora una volta senza violenza.
Nei film che hanno per protagonisti gli eroi positivi che, grazie ai loro superpoteri, “sgominano orde di cattivi suscitando emozioni di approvazione e ammirazione nello spettatore”, la violenza si presenta nella sua forma “buona” di controviolenza.
Tutti i supereroi hanno una identità segreta, come se avessero bisogno di essere qualcun altro per poter gestire il potere di cui dispongono: chi usa la violenza, seppur come “antidoto” ad altra violenza, non è Bruce Wayne, Peter Parker o Clark Kent, ma Batman, Spiderman o Superman. Come spettatori allora non ci identifichiamo con l’essere umano, ma con la maschera.
Il supereroe può di fatto essere chiunque e nessuno allo stesso tempo, e quindi violento e buono allo stesso tempo. Il suo potere è messo al servizio del bene, è il mezzo per fermare nei cattivi l’uso del potere fine a se stesso. Ma è sufficiente collocare la violenza (e collocarci) dal lato giusto di quel confine etico per sollevarla dalla sua colpa? Ancora una volta, affidandoci al cinema che, come ogni forma d’arte, riesce a mettere in dialogo l’immaginario con il reale, proviamo a cambiare prospettiva. Prendiamo Joker, il cattivo per eccellenza, nonché storico nemico di Batman: la sua violenza non ci seduce come quella degli eroi positivi, se non nella versione del regista Todd Phillips, dove in qualche modo la percepiamo come controviolenza nei confronti di una società che lo ha disconfermato, lasciandolo solo. Con un passo ulteriore possiamo dire che il lato seduttivo della violenza sta sì nel potere, ma forse soprattutto in quello della controviolenza, che in comune con la violenza ha la premessa dell’ostacolo da eliminare. Resta il problema etico: è giusta la controviolenza? La discriminante può essere solo nel potere come mezzo o come fine? Insomma, volendo il lieto fine a tutti i costi, la controviolenza finisce per legittimare la violenza, o addirittura per generarla, come sostiene Sartre, secondo cui per il violento la vittima “ha sempre cominciato prima”. Ma se al cinema, che è quel luogo dell’immaginario in cui il lieto fine è assicurato, la controviolenza può incarnare una “legittima difesa corale”, tornando alla realtà non dovremmo mai dimenticare che il bene, come ci dice Martha Nussbaum, è fragile, poiché siamo noi ad essere fragili, sempre in balìa di emozioni contrastanti, di paure e del caso.
La violenza non divide il mondo in buoni e cattivi, perché il mondo non è così semplice né così scontato. E se il bene ha la sua kryptonite anche nella realtà, non ci
resta che ricordare a noi stessi insieme a Spiderman che “da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Che il fascino della violenza nasconda in fondo il desiderio di un il lieto fine? Ma esiste un lieto fine al di fuori dell’etica?
Maria Luisa Petruccelli
Violenza e Immaginario (parte 1)
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