Cinema
Viggo Mortensen presenta The dead don’t hurt
Alla festa del Cinema di Roma, Viggo Mortensen ha appena ricevuto il premio alla carriera e ha presentato il suo secondo film da regista “The dead don’t hurt” (I morti non soffrono). Si è poi concesso un paio di giorni nella capitale per introdurre il suo film e dialogare con il pubblico. Siamo andati quindi al cinema Quattro Fontane dove la star di Hollywood ha risposto alle domande di Hakim Zejjari, giornalista del quotidiano Domani.
L’intervista a Viggo Mortensen
Mortensen si presenta come un bell’uomo che mostra i suoi 65 anni. I suoi occhi bassi mostrano una timidezza che non ci si aspetterebbe da chi è abituato a calcare ben più importanti palcoscenici. Mentre tiene tra le gambe una scatola, come un regalo appena ricevuto, risponde con tranquillità e pacatezza alle domande che il giornalista pone in italiano. L’attore poliglotta fa i complimenti alla traduttrice e preferisce parlare inglese, esprimendosi raramente in un italiano dal forte accento spagnolo, proprio di chi ha vissuto parte dell’infanzia in Argentina.
Oggi è il giorno del suo compleanno. Un giovane fan ne approfitta per fargli un piccolo regalo, ovvero una fotografia polaroid che possiamo solo immaginare. Alla fine dell’intervista, gli organizzatori gli porgono un grande mazzo di fiori, che riceve con aria un po’ imbarazzata, come a confermare la timidezza mostrata in precedenza.
Rivela che non avrebbe dovuto interpretare il film, perché aveva già affidato la parte a un giovane attore che ha abbandonato il progetto improvvisamente. I tre attori che potevano rimpiazzarlo erano già tutti impegnati. Alla fine, dopo aver chiesto parere all’attrice Vicky Krieps, ha modificato leggermente la parte per interpretarla personalmente.
Un film femminista
Il regista ha dato particolare rilevanza al parere di Krieps, perché l’attrice è la vera protagonista del film. Mortensen ha dedicato il film alla madre, donna forte e indipendente, che lo ha iniziato all’amore per il cinema. Quando era bambino, infatti, la mamma non lo accompagnava a vedere cartoni animati come “Bambi”, ma film veri e propri come “Lawrence d’Arabia”. Ricorda che, mentre vedeva il capolavoro di David Lean, pensava che i cammelli fossero strani cavalli. Durante l’intervallo, discutevano insieme su come si sarebbero conclusi i film a cui assistevano.
La star di Hollywood ricorda di aver iniziato a scrivere il film durante il lockdown, tessendo la trama di una giovane donna che affronta le disavventure con caparbietà. Poi, ha deciso di ambientare la storia nella California del 1860. Il film è diventato così un western, dove la macchina da presa non si sofferma sull’uomo che va alla guerra, ma sulla donna che resta a casa.
L’attore sottolinea che nessuno ha mai raccontato la storia delle donne comuni che popolavano il selvaggio west. Le poche donne presenti nei film western sono potenti e importanti, come Claudia Cardinale in “C’era una volta il West”. Invece, Mortensen utilizza una prospettiva diversa, femminista, per narrare la vita di una donna che ama il suo compagno in un paese di maschi malvagi e corrotti.
Lo studio
Il regista ha studiato bene i dettagli di quell’era, grazie alla visione delle fotografie esposte al museo Smithsonian di Washington D.C. e di tanti film western, anche minori, perché in ognuno può nascondersi un dettaglio interessante. Ha particolarmente approfondito i film muti, perché girati pochi anni dopo quell’epoca e ricchi di dettagli. Inoltre, Mortensen ha usato una regia di tipo tradizionale, semplice nel risultato, ma non facile da realizzare. Ad esempio, il regista non stacca mai la macchina da presa durante la lunga sequenza iniziale dove un uomo uccide numerose persone in un saloon.
Infine, ammette di non aver seguito un approccio temporale lineare per creare un meccanismo narrativo volto ad approfondire i personaggi. Le prime scene già ci mostrano la morte sia della protagonista Vivienne che di alcuni personaggi del paese. Così, lo spettatore si interessa nel ripercorrere le loro vite, approfondendo chi sono stati e perché hanno avuto tale sorte.
Malgrado le tante idee e i buoni propositi, il film mi è parso riuscito fino a un certo punto. Soprattutto non ho avuto la sensazione di aver visto un film femminista. In definitiva, racconta la storia di una donna forte e intraprendente che si innamora di un avventuriero che la conduce in un paesino corrotto. L’uomo si allontana presto per partecipare alla guerra di secessione, lasciando la donna preda di maschi malvagi, che ne causeranno la morte, come si vede già all’inizio del film.
I limiti del film
Il destino di Vivienne assomiglia a quello di una santa che sceglie di subire tanti torti pur di aspettare il proprio uomo. Vivienne appare una donna priva di difetti che non si ribella al suo destino, ma lo accetta passivamente. Personalmente, preferisco di gran lunga film femministi dove si indaga la personalità complicata e sfaccettata della protagonista, divisa tra bene e male, senza né santificarla né demonizzarla. Un buon esempio è “Anatomia di una caduta”.
Inoltre, nel tentativo di mostrare le espressioni e i sentimenti dei protagonisti, il film sembra indugiare troppo sui loro volti, creando primi piani interminabili. Una scelta stilistica che mi è parsa discutibile perché si sarebbe potuto meglio risaltare la bellezza della natura circostante.
Viggo Mortensen ha lavorato come attore, regista, sceneggiatore, produttore e compositore. Ha così realizzato un film godibile dalla trama semplice e lineare, malgrado i numerosi salti temporali, ma che non coglie perfettamente gli obiettivi prefissati.
Il modo di lavorare sembra quello di Clint Eastwood. Peccato che quest’ultimo riesca ancora a dare alle sue storie una forte impronta stilistica, sia per quanto riguarda la suspence, che la morale. I suoi film hanno uno spessore tale da stimolare riflessioni profonde e originali sul rapporto tra i sessi e sul potere. Così, a novanta anni Eastwood resta uno dei migliori registi in circolazione, mentre Mortensen ha ancora tempo per migliorare.
Foto di Hua Wang
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