Cinema

Un Taxi anti-Ahmadinejad conquista Berlino

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14 Febbraio 2015

Il grande regista iraniano Jafar Panahi ha vinto l’Orso d’oro con «Taxi». Si è chiusa così la sessantacinquesima edizione della Berlinale con l’Orso d’argento conferito al film drammatico di Pablo Larraìn «El Club» e il premio Alfred Bauer a «Ixcanul» del guatemalteco Jayro Bustamante.

Panahi ha di nuovo eluso la censura iraniana che lo ha costretto prima agli arresti domiciliari e poi a non poter lasciare il paese, realizzando un bel film politico e sulla distinzione tra realtà e finzione. Il vincitore del Leone d’oro al festival di Venezia con «Il Cerchio» (2000) e regista di «This is not a film» (2011), in cui Panahi riprese la sua vita quotidiana agli arresti domiciliari e arrivato clandestinamente al festival di Cannes, ha scelto di montare una telecamere sulla sua autovettura e di improvvisarsi tassista. Una scelta forse già vista in altri film ma che in questo caso è giustificata dai gravi limiti imposti all’autore.

E il risultato è uno spaccato straordinario della vita quotidiana nella capitale iraniana che mai si vedrà nelle sale cinematografiche del suo paese. Se Teheran era rimasta un po’ ai margini nell’altro film girato in automobile «Dieci» di Abbas Kiarostami, questa volta le vite dei clienti improvvisati di Panahi si intrecciano magistralmente con la vita del regista, tra realtà e cinema. E così proprio lui che non può rilasciare interviste risponde alle domande di un giovane studente a cui fa visita uno dei suoi clienti, venditore di dvd pirata che a suo tempo aveva fornito al Panahi, allora ragazzo, copie di Woody Allen e Nuri Bilge Ceylan. Lo studente chiede al maestro come fare a scegliere temi originali per i suoi film. Panahi gli consiglia semplicemente di guardarsi intorno.

Di cercare proprio quel realismo che le autorità iraniane rimproverano al regista. Quella ricerca della verità che ricompare in «Taxi» tra gli appunti di una sua nipotina che escogita ogni possibile espediente per passare tempo con il famoso zio regista. Eppure, poiché la bambina deve realizzare un documentario scolastico, elenca le regole per un film «giusto» secondo i principi della Repubblica islamica. La più importante è di evitare quel «realismo sordido» che Panahi sembra abbracciare e deridere allo stesso tempo. Per esempio quando imbarca sul suo taxi un uomo ferito in un incidente, accompagnato da sua moglie. L’uomo per lasciare tutti i suoi beni alla donna ed evitare l’avidità dei fratelli chiede che venga registrato un video in punto di morte in cui dichiara di lasciare tutto alla moglie. La donna poco dopo richiamerà il regista per avere quelle riprese, anche se il marito alla fine non è morto, come se si trattasse dell’unico possibile atto di difesa per una donna che sa bene che il diritto iraniano in materia di successione la penalizzerebbe.

Questa commistione tra vita privata e finzione, tra attori e gente comune, continua con molta scioltezza per tutto il film. L’incontro con un vicino di casa che rivela di essere stato derubato dall’uomo che ora vende succhi, spinge Panahi a voler vedere il volto del ladro. E saranno proprio dei giovani a svaligiare la sua vettura, lasciata a due passi dalle iscrizioni persiane di Chesmeh Ali, nella periferia meridionale di Teheran, mentre è il volto e la cadenza di un rapinatore la voce del suo primo cliente, affrontato con durezza da una donna, con sui condivide temporaneamente il taxi, che gli chiede conto dei suoi comportamenti. Alle fonti di Chesmeh Ali volevano arrivare anche due donne che per la loro ilare superstizione avrebbero dovuto liberare due pesci rossi e prenderne dei nuovi. E per questo repentinamente cacciate dalla vettura di Panahi.

Ma tra gli incontri di «Taxi» spicca per rilevanza e coraggio, l’ingresso nella vettura con le sue rose rosse dell’avvocato per la difesa dei diritti umani e premio Sakharov, Nasrin Sotoudeh. Con uno sguardo dolce e profondo, Sotoudeh racconta di voler far visita a Ghoncheh Ghavhami, la giovane iraniana arrestata e poi rilasciata perché avrebbe voluto assistere ad una partita di pallavolo, permessa ad un pubblico di soli uomini. Ma il tentativo più generale di Sotoudeh, arrestata nel 2010 con l’accusa di cospirazione contro lo stato e condannata a undici anni di reclusione, è di descrivere la disperazione dei giovani attivisti iraniani, costretti ad entrare ed uscire dal carcere, a cui lei però consiglia di vivere la loro esistenza con semplice ironia. «Trasformano la tua vita in una gabbia a cielo aperto tanto che vorresti tornare in prigione», spiega una Sotoudeh quanto mai affascinante.
Iran: tra cinema, svolta moderata e censura del movimento riformista

Il regista Jafar Panahi è stato tra i sostenitori delle manifestazioni anti-Ahmadinejad del 2009 e 2011. Da allora però le cose in Iran sono cambiate e nel giugno 2013 ha vinto le elezioni presidenziali il moderato Hassan Rohani. Tuttavia il cambiamento per la società civile iraniana tarda ad arrivare. Restano agli arresti domiciliari i due leader riformisti Mehdi Kharoubi e Mir Hussein Mousavi, accusati di aver fomentato le proteste anti-governative del 2011, mentre non si ferma la repressione del movimento riformista. Le università iraniane sono state attraversate da nuove contestazioni. Questa volta i giovani iraniani hanno contestato le accuse mosse dall’editore del quotidiano conservatore Kayhan. In un suo discorso all’Università di Teheran, Hossein Shariatmadari aveva accusato i leader riformisti di aver convinto l’Occidente a imporre le sanzioni contro l’Iran che hanno colpito la popolazione soprattutto negli ultimi anni. Il presidente moderato Hassan Rohani aveva promesso più ampie libertà all’interno degli atenei, favorendo il ritorno dei dirigenti accusati di coinvolgimento con le proteste del 2009. In realtà le aperture promesse da Rohani hanno incontrato la dura opposizione del clero conservatore.

Anche il nuovo partito riformista Neda (che in persiano fa riferimento alla «Seconda generazione di riformisti»), approvato dal ministero dell’Interno all’inizio di dicembre, ha subito arresti e minacce. Il gruppo è guidato da Sadeq Kharazi, diplomatico di lungo corso, consigliere di Mohammed Khatami, composto da 12 politici e vicino a giovani riformisti e politici di Mosharekat (Partecipazione), il movimento fondato dall’ex presidente. Kharazi aveva più volte fatto riferimento alla partecipazione del gruppo alle prossime elezioni parlamentari e all’obiettivo di raccogliere i voti della classe media per colmare il vuoto lasciato dai limiti imposti ai riformisti iraniani dopo il 2011. Come se non bastasse, il quotidiano riformista Mardom-e Emrooz è stato chiuso, mentre 12 cibernauti sono stati arrestati e 24 citati in giudizio in un’operazione che ha portato alla censura di 350 pagine Facebook e alla chiusura di 130 di queste. Per la stampa conservatrice si è trattato di un’operazione «contro la diffusione della corruzione che ha come obiettivo di minare la stabilità delle famiglie iraniane». Dal canto loro, deputati conservatori starebbero lavorando a una proposta di legge che impedirebbe ai giornalisti riformisti di lavorare in altri giornali una volta che la loro pubblicazione venisse chiusa.

La tanto attesa primavera culturale iraniana degli anni del presidente riformista Mohammed Khatami per ora ha solo lambito il cinema, il teatro e la musica in Iran. Eppure questa vittoria alla Berlinale di Jafar Panahi ricorda la vitalità della società civile di uno dei paesi dove la modernità ha trovato la più articolata resistenza.

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