Cinema
Un altro ferragosto. Un pugno nello stomaco il film di Paolo Virzì
Un altro ferragosto – di Paolo Virzì (2024)
Estate a Ventotene in prosecuzione del precedente e folgorante Ferie d’agosto di ventotto anni fa e tuffo al cuore per l’inarrestabile marcia del tempo. Sbarca dal traghetto sull’isola dell’antifascismo una fauna umana prevalentemente romana esibente la solita parlata vernacolare da pasticciaccio gaddesco. (In bocca a Anna Ferraioli Ravel alias Sabrina “Sabry” Mazzalupi il romanesco ha un che di trucido e di creaturale assieme da assurgere alle forme del sublime, seppur nella categoria minore del grottesco triste).
Si sbobina una pellicola polifonica, con un preciso brio e ritmo tra entrate e uscite di scena dei personaggi a volte a gruppi a volte singoli che a tratti ricorda una galleria grottesca e stralunata felliniana.
Non c’è un plot se non filiforme – la celebrazione di un matrimonio da una parte e la reunion di un altro gruppo per festeggiare il vecchio Sandro Molino (Silvio Orlando) – ma una suite di scene in funzione di affresco corale con esili intrecci narrativi, vendite di titoli, piccoli ricatti, storielle laterali di soldi e di impicci finanziari vari tra vecchia e nuova economia, malmostosi scontri e riscontri della puntata precedente e, sottotraccia, confronti spietati tra come eravamo e come siamo diventati: una congrega imbruttita di sporchi brutti e cattivi e soprattutto tremendamente smandrappati, invecchiati e siliconati, coi nostri social, i nostri influencer, i nostri smartphone, i nostri botulini, il tutto ad indicare forse, nell’intenzione tacita della regia, la negazione vivente di ciò che gli antifascisti avevano immaginato per la nostra “futura umanità”, ossia il fulgido sol dell’avvenire è diventato il tuorlo di un uovo fritto di una umanità dolente e smarrita certo ma parecchio imbruttita.
Persistono le due tribù, oltre che ideologiche antropologiche, di destra e sinistra, ma sono come karaokizzate. Lo sguardo sfiduciato della regia sembra rinunciare alla dialettica di sommersi e salvati, e redarguisce perciò equamente con tratto grottesco sia il moralismo bacchettone e l’idealismo sempre al rialzo della sinistra (c’è anche un “Cosa pensi di Elly?” cui Molino preferisce scantonare) tra perenne orazione civile e stucchevole e inconciliabile disgusto per la parte avversa, sia l’edonismo casereccio della tribù di destra, la sua smemoratezza, il suo disimpegno, la sua insipienza, il suo cinismo, la sua sordidezza.
Sandro Molino moribondo, perso nei fumi della rimembranza storica dei Colorni, Pertini, Hirschmann, Spinelli, sembra l’immagine iconica e tragica della Repubblica, e pare raccogliere perciò nel viso irsuto e scavato e nelle membra stanche tutti i punti di scoramento della terribile configurazione del nostro innominabile attuale
Si esce dal mitologico Anteo tristi solitari e finali, segno che Virzì ci ha saputo infliggere più di un pugno nello stomaco. Una volta si usciva dalla forza mitopoietica dei film cercando fuori della sala dove attaccare il nostro cavallo, oggi dove annodare le redini della nostra speranza. Da rivedere perciò solo se si ha il gusto algolagnico di farci volontariamente del male, ma da rivedere.
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