Cinema
The Place
Non ho competenze in materie cinefila se non quelle legate alla passione e infatti di The Place, il nuovo film di Paolo Genovese, adattamento delle serie americana The Booth at The End, dirò solo cose legate alle riflessioni socio-relazionali che la pellicola mi ha smosso in maniera vigorosa.
Breve riassunto della trama: Valerio Mastandrea sta seduto al tavolino di un bar e di fronte a lui, in un continuo via vai, si alternano otto diversi personaggi, ognuno con qualcosa da chiedere e ognuno disposto a fare qualcosa per soddisfare la propria richiesta. Il do ut des è regolato dallo stesso Mastandrea che, consultando continuamente un grande taccuino su cui ha sempre qualcosa di nuovo da annotare, stabilisce per ogni richiesta la rispettiva contropartita. A tenergli compagnia, o a rimarcare la sua solitudine, la cameriera Sabrina Ferilli.
Cosa chiedono gli avventurieri?
Ciò che ognuno di noi potrebbe volere, o ha voluto, o vorrà o di cui nemmeno l’ombra del pensiero lo sfiora (si gioca su uno spettro identificativo molto ampio e, quindi, decisamente forte).
Chiedono la vista, la guarigione del figlio bambino dal cancro, lo svanimento dell’Alzheimer dell’anziano marito, una notte di sesso con la ragazza copertina, il riaccendersi della passione nella coppia. Chiedono di sentirsi bella, di riconquistare l’amore filiale, di cancellare l’amore paterno, di ritrovare Dio.
In cambio dovranno (solo) violentare, uccidere, far esplodere una bomba, proteggere, distruggere una coppia, rubare, picchiare, dire “ti voglio bene”, fare sesso.
Il mio amico Matteo, che di cinema si intende molto più di me, ha detto che Genovese e la Aguilar hanno fatto un ottimo lavoro con la sceneggiatura. E non ho potuto che dargli ragione perché The Place non si muove e non si vede, ma si ascolta, come una storia. Questo può creare claustrofobia, asfissia e straniamento nello spettatore, eppure avvicina moltissimo alla realtà, dove la maggior parte delle storie altrui vengono osservate attraverso l’ascolto del racconto fatto da chi le vive.
Ciò detto, il primo quesito che viene sottoposto al pubblico pagante è: cosa è giusto e cosa è sbagliato? O meglio: quando e perché una cosa è giusta o sbagliata? E quindi: esiste un giusto e uno sbagliato? (Non aspettatevi di avere una sola risposta perché, mai come in questo film, la risposta è la domanda, anzi, le domande).
The Place è volutamente e necessariamente ambiguo, dal momento che chiama in causa l’agire umano nel giudizio di altri esseri umani; e lo fa non in riferimento a situazioni legate all’ordinario, dove una valutazione sarebbe stata forse più facile, ma in relazione a casi limite dove la soggettività (intesa come connubio indissolubile di combinazione genetica, origini, identità, etica, morale, cultura, esperienza e credo) diventa regina assoluta del gioco.
Uccideresti una bambina dell’età di tuo figlio per salvare lui da una malattia incurabile? Assolutamente no, eppure assolutamente sì.
Sei una suora che vuole ritrovare Dio? Allora vai a letto con uno sconosciuto. Un controsenso oppure il senso vero?
Le storie dei protagonisti sono estremizzate e concatenate e senza dubbio forzate in alcuni casi, ma smuovono le coscienze, fanno riflettere, in un cinema che prende le vesti rosse dei sipari del teatro, di cui finisce con l’assolvere l’agognata funzione catartica.
Di fronte a ciò che riteniamo fondamentale siamo disposti a scendere a compromessi, ad andare contro principi che si sgretolano non senza fare rumore, una volta mutata la situazione di partenza in cui li abbiamo costruiti e in cui ci sembravano indistruttibili.
Contro una società che vuole ridurci (e da cui ci lasciamo ridurre) a una sola, misera identità e che relega tristezze, dolori, insuccessi, malattie e brutture in una zona periferica sempre più centrale, come se il dark side non facesse parte di noi tanto quanto la faccia buona della medaglia, ecco che The Place ci ricorda quanto complesso e mutevole e ombratile può essere l’animo umano, contraddittorio, cattivo, complesso ma anche semplice, meraviglioso, lucente.
Ci sarà chi farà prevalere il proprio egoismo, chi cambierà desideri e priorità e chi riaffermerà sopra tutto la dignità dell’esistenza (ruolo, questo, attribuito alla sublime Giulia Lazzarini).
E non si capirà chi è Mastandrea: il libero arbitrio, l’incarnazione della coscienza personale, un grillo parlante dalle sembianze umane, il diavolo, Dio (o quantomeno un deus ex machina), un Faust titubante, lo specchio di quello che siamo o vorremmo essere. Non si capirà perché alla fine la Ferilli sembra prenderne il posto e il ruolo: forse perché il nostro senso di giusto/sbagliato cambia continuamente, o muta il riferimento rispetto a cui cataloghiamo il bene e il male, o forse perché un piccolo colpo di scena è sempre doveroso.
Matteo mi ha detto che il film andrebbe rivisto almeno altre due volte per provare a capire meglio cosa vuole dirci, se esiste una morale univoca o se l’ultima parola, in fondo, non è mai data, come sovente accade nello stare al mondo.
Allora noi lo rivedremo senz’altro. Voi, almeno una volta, guardatelo. Per guardarvi dentro.
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