Cinema

The Holdovers – Un film potente sulla giovinezza come vigilia della vita

19 Marzo 2024

The Holdovers – Lezioni di vita, di Alexander Payne (2023)

In verità il film che io avrei premiato di più agli Oscar è ” The Holdovers”, quelli che sono rimasti soli durante il periodo più lancinante dell’anno, il Natale, in cui si festeggia la tradizione, il tempo che passa e gli affetti familiari (per chi ce li ha, per chi ha pensato a costruirseli, per chi non ha altro).
In questa situazione estrema si trova, a scambiarsi momenti intensi di cognizione del dolore, il terzetto degli holdovers e cioè il Prof di Classics (perlopiù greco-latina) Paul Hunham interpretato da uno stupefacente e stellare Paul Giamatti, il giovane irrisolto (alla Holden Caulfield del celebre archetipo ormai di Salinger) Angus Tully (Dominic Sessa) e infine la cuoca in carne Mary Lamb (interpretata da Da ‘Vine Joy Randolph che, per questa interpretazione, ha vinto l’Oscar come Migliore Attrice Non Protagonista).

Che dire. È certo il solito college novel angloamericano, il romanzo di formazione, ambientato in quelle alte e costose scuole yankee in cui si forma la loro ruling class, e il film non è certo tenero con tutta la retorica che circola su queste istituzioni formative, evidenziandone  fin dalle prime scene – con il gesto certamente classico dell’anasyrma cioè  abbassandogli le mutande della rispettabilità censitaria – e mostrandone il feroce classismo e la stolida venalità.

È certo una situazione data, quasi canonica questa di trovarsi dentro una gabbia narrativa consolidata e facilmente riconoscibile. Ma saper giocare con i cliché avvalendosi della  risonanza dell’intertestualità” come la chiamava Umberto Eco, è una delle forme in cui si esercita il genio creativo, ossia giocare coi vincoli di un recinto narrativo e sapervi apportare il proprio contributo di originalità costituito qui dalla devastazione interiore, dai tic, dallo strabismo, dal cattivo odore del prof Hunham che francamente giganteggia e nella galleria dei prof struggenti si affianca all’indimenticabile e quasi consonante professor Unrat dell’Angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg, prof dalla cultura classica un po’ trombonesca dei nostri vecchi e provinciali professori di liceo etnei, ma capaci e talora solo vogliosi di trasmettere, tra grottesco e sublime, un’Antichità con sotto i richiami lancinanti di civiltà perdute, di evi perenti, di quelle bellezze dell’anima degli Antichi “allongeés au fond des solitudes” come la Sfinge, direbbe il poeta. (Baudelaire nei versi di “Les Chats”).

E su tutto un po’ di mestiere. La capacità di governare i plot, costruire buoni dialoghi, confezionare prodotti con un occhio alla resa emotiva (certo canaglia e anche un po’ ruffiana) presso il grande pubblico, ma sapersi tenere lontani con cura dai sibaritismi dei perfetti esteti dei realizzatori di pellicole sempre più lodate da coorti di cinéphiles pronti a delibare prodotti “per noi happy few” (e che in genere, come tanta arte contemporanea, tra fuffa e truffa, restano dentro il recinto asfittico di artisti, assessorati e critici superciliosi). Un film che ci prende fin dalle prime battute e che ci percuote nelle zone più profonde del precordio dove alberga il nostro senso della vita, della nostra unica e irripetibile occasione terrena. Un film che difficilmente si dimenticherà.

^*^*

Vedi anche:

* La sala professori. Film dall’intreccio di risoluzione che conquista e interroga.

* Un altro ferragosto. Un pugno nello stomaco il  film di Paolo Virzì

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