Cinema
Terry Gilliam, dove la fantasia incontra la realtà
L’autobiografia “pre-postuma” di Terry Gilliam, Gilliamesque, da poco pubblicata in Italia (l’editore è Sur, la collana Big), è innanzitutto un regalo per i fan. I fedelissimi del regista, illustratore, cartoonist e co-fondatore dei Monty Python e del suo immaginario debordante, categoria circoscritta ma piuttosto trasversale, non può che gioire di fronte ad un libro di grande formato farcito di ritagli, immagini, illustrazioni, foto e note a margine.
Coloro i quali si aspettano una ininterrotta sequenza di trovate e battute – chi segue le incursioni di Gilliam nei social network ha di che divertirsi – resterà forse un po’ deluso: l’esuberanza appartiene soprattutto alle opere, l’autore si limita a raccontarsi con godibile onestà, senza comunque mai prendersi troppo sul serio. E senza allargare il quadro ad auto-analisi teoriche troppo approfondite.
E tuttavia non c’è motivo di essere delusi: Gilliam è un vulcano istintivo di idee che non vuole svelare neppure a se stesso il funzionamento del proprio immaginario, per non correre il rischio di spezzarne l’incantesimo. Rompere il velo, del resto, non aiuterebbe a saperne di più sulla distopia grottesca e surreale di Brazil o sulla portata rivoluzionaria dei Monty Python nell’Inghilterra a cavallo tra anni Sessanta e Settanta. Una necessità ribadita con chiarezza, ad un certo punto, quando Gilliam spiega come mai, a fronte dei ciclici momenti di depressione che lo affliggono dopo aver portato a termine i propri progetti, non abbia mai scelto di ricorrere alle cure dell’analista: “Non voglio rischiare di scombussolare le forze che mi fanno venire le idee migliori. Lo so che ci sono un sacco di cose stranissime che mi aleggiano nella testa, ma non voglio analizzarle; voglio metterle all’opera”.
Gilliamesque è una collezione di ricordi, epifanie e intuizioni, a partire dall’infanzia trascorsa in Minnesota e il successivo approdo, negli anni Cinquanta, in California, terra che fornisce alla sua fervida immaginazione la scintilla iniziale. Stoney Point, uno dei più celebri set del cinema western, nei pressi di Los Angeles, è in questo senso una sorta di luogo iniziatico: “Quando si va in un posto per la prima volta e quel posto si rivela diverso da come ci si aspettava, è sempre una delusione, ma la cosa strana di Stoney Point è che noi continuammo a tornarci. Non perdeva il suo fascino. Arrivi lì, e non è per niente come avevi sperato perché nei film sembra più spettacolare, ma poi provi a guardare quello che hai davvero intorno e con la fantasia ricominci a renderlo interessante. Alla fine, credo che molti dei miei film siano ambientati proprio in quel luogo di confine: dove la realtà incontra il mito o la fantasia”.
Partendo da una adolescenza trascorsa all’ombra del sogno hollywoodiano, Gilliam racconta le tappe cruciali della propria formazione: i fumetti della rivista comica Mad, vero e proprio modello di iconoclastia per tutte le imprese successive, l’esperienza a Fang, all’interno della quale il Nostro si fa le ossa come illustratore, il successivo trasferimento a New York, nella redazione di Help! Il ritorno in California coincide con l’esplosione dell’idealismo hippie, dal quale Gilliam prende le distanze, denunciandone in tempi non sospetti il carattere velleitario e in fondo conformista: “Di solito mi viene istintivo andare nella direzione contraria a quella della massa, ma rispetto al rapido dilagare della controcultura degli anni Sessanta la situazione era un po’ diversa: io in realtà non stavo andando nella direzione opposta, piuttosto restavo immobile mentre tutti gli altri si muovevano. Nell’atmosfera sempre più autocompiaciuta che seguì Monterey, cominciai a chiedermi se per caso la gente non avesse perso un po’ la capacità di pensare con la propria testa, facendosi trascinare dalla corrente”. Una prospettiva che trent’anni dopo lo spingerà ad accettare di portare sullo schermo Hunter S. Thompson e il suo Paura e Delirio a Las Vegas, che sulla disillusione post-hippie imbastisce un visionario anti road novel.
Il momento decisivo è tuttavia il suo trasferimento in Inghilterra, o meglio la fuga dall’America di Nixon e del Vietnam: il rapporto problematico con la madrepatria si risolverà nel nuovo millennio con la scelta di rinunciare alla cittadinanza americana, nell’era di Bush e di una ossessione nei confronti della sicurezza trasformatasi sempre più in arma di controllo.
La Gran Bretagna, meta scelta per una preesistente anglofilia, è il luogo dell’incontro decisivo con i futuri Monty Python. Le sue animazioni, che interferiscono con gli sketch dell’ensemble comico britannico nelle puntate del Flying Circus, consentono al gruppo di liberarsi della retorica della battuta finale, fino ad allora un vero e proprio dogma.
All’interno dei Python, Gilliam è un elemento decisivo al pari degli altri, ma quasi sempre volontariamente “fuori campo” (nelle foto promozionali ad esempio, ci tiene a far notare), posizione defilata che con il passare del tempo, e con l’inaugurazione della carriera cinematografica dei Python, coincide con un crescente bisogno di mettersi in proprio dietro alla macchina da presa. I primi tentativi, imperfetti, di Jabberwocky e I banditi del tempo (che tuttavia ha un buon successo negli USA) aprono la strada all’ambizioso Brazil, rilettura in chiave grottesca e surreale del totalitarismo orwelliano, vetta creativa ma anche primo incontro ravvicinato con le problematiche produttive e distributive che lo perseguiteranno in futuro.
L’ultima parte è una cronistoria di imprese riuscite (La leggenda del Re Pescatore, L’esercito delle 12 scimmie, Parnassus) e fallite (lo sfortunato, per colpe non sue, Le avventure del barone di Munchausen, l’abortito film su Don Chisciotte, di recente tornato nell’elenco dei progetti possibili), di battaglie contro gli ostacoli (“mancanza di tempo, di sonno, di soldi e di talento” sono, secondo Gilliam, i pilastri del suo cinema) ma anche il manifesto di un pragmatismo lontano dalla vulgata che vorrebbe il regista sognatore utopico incapace di tenere i piedi per terra. Lucidissimo, invece, nell’analizzare i punti di forza e i limiti della propria visione: “I mondi circoscritti, dotati di loro specifiche leggi e gerarchie hanno sempre stimolato la mia immaginazione, che fosse la realtà virtuale di Tomorrowland a Disneyland, o i castelli medievali, o le corti romane dei peplum, che io amavo esattamente allo stesso modo. Strutture sociali così definite davano agli uomini qualcosa a cui reagire e contro cui incazzarsi, e io ho sempre avuto – e ce l’ho ancora – la tendenza a semplificare il mondo in una serie di belle opposizioni nette, ai margini delle quali posso mettermi a cazzeggiare. È quando le cose cominciano a farsi più astratte e vaghe che per me cominciano i problemi”.
E la morte, visto lo scaramantico sottotitolo di Gilliamesque? Non è un problema. Il settantacinquenne Gilliam continua a macinare idee, ormai deciso a realizzare solo progetti che lo appassionino. Avendola sfiorata per un banale incidente domestico, ci fa sapere che, da quel che ha potuto capire, non sembra poi così male.
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