Cinema

Takoua Ben Mohamed: “Ho disegnato un muro fra me e l’amico fascista”

11 Gennaio 2022

Ammetto di venire a conoscenza di Takoua Ben Mohamed grazie al riconoscimento di donna dell’anno, conferitole da D – La Repubblica.
Trovo lei e la sua storia molto interessanti, cerco su internet più informazioni e vado in libreria per recuperare i suoi libri, soprattutto l’ultimo “Il mio migliore amico è fascista”.
Takoua ha origine tunisine, suo padre è un esule politico della dittatura di Ben Alì. Lei e il resto della famiglia, la mamma e altri 5 fratelli (il settimo nasce in Italia) raggiungono il padre quando Takoua ha 8 anni. Cresce a Roma, dividendosi fra la scuola, dove trova ambienti ostili, e le attività di volontariato che da sempre fanno parte della sua esistenza. Il disegno e la scrittura sono il suo modo per raccontare storie, in primis la sua.
Graphic Journalist, videomaker, illustratrice questa è Takoua e questa la mia chiacchierata con lei.

La tua storia è già stata raccontata tante volte, mi piacerebbe invece chiederti chi è Takoua oggi rispetto alla bambina di 8 anni che ha lasciato la Tunisia e rispetto all’adolescente cresciuta a Roma?

Sono ancora alla ricerca di chi è Takoua oggi, mi posso definire in tanti modi, sia in ambito professionale sia a livello di identità personale. Sono cresciuta in un ambiente misto e appartengo a varie identità, non solo quella italiana e non solo quella tunisina, ma molteplici identità culturali. A 8 anni non mi identificavo in un’identità né culturale né personale, è un’età in cui non ti poni le domande su chi sei e a che cosa appartieni. Queste domande me le sono portate dietro, invece, per tutta l’adolescenza, vissuta alla periferia di Roma, che non è stata facilissima, ho cambiato tantissime scuole, a volte perché non mi trovavo bene, soprattutto con gli insegnanti. Quello è stato un grande problema. Avevo imparato a farmi scivolare addosso gli episodi di bullismo dei compagni di classe, ma non come mi trattavano gli insegnanti. Lì sono iniziate le domande. Per gli insegnanti ero tunisina, invece io mi consideravo romana. La Tunisia l’avevo lasciata a 8 anni e ci sono tornata solo dopo i miei 20 anni, dopo la rivoluzione. Non sapevo nemmeno cosa fosse quel Paese, nel quale mi identificavano gli adulti. Dopo tanti anni a cercare chi fossi, oggi preferisco non avere una risposta, perché sono arrivata a un livello di consapevolezza, per il quale, se ho una risposta, significa categorizzarmi in una sola identità e mettere da parte tutte le altre e questa non sono io.

E professionalmente come ti piace definirti?

Creativa, vocabolo che riassume tutti gli ambienti in cui lavoro. Faccio fumetti, scrivo storie, graphic designer, faccio animazioni, documentari…

Vuoi raccontarci un po’ cos’è BM Entertainment e come tu ne sei coinvolta? 

È una produzione che ho fondato con due miei fratelli, uno di loro vive a Londra e lì fa sceneggiatore e regista, l’altro è direttore della fotografia e io mi sono specializzata nell’animazione e grafica. Facciamo spot, documentari, videoclip.

Hai sempre affermato che indossare il velo per te è una scelta, all’inizio anche ostacolata dalla tua famiglia. Lo spieghi molto bene anche nel tuo ultimo libro “Il mio migliore amico è fascista”. Senza entrare nel merito della tua scelta personale, vogliamo però provare a spiegare cosa si intende per indossare il velo per scelta, perché c’è ancora tantissima confusione, banalmente anche fra cosa sia un burqa e cosa sia un hejab.

Quando ho iniziato a portare il velo l’ho fatto per provare e sperimentare qualcosa che tutti mi dicevano di non fare, i miei genitori in primis, le persone che conoscevo, sia della comunità musulmana sia al di fuori, ognuno con le sue motivazioni. Sono sempre stata una ragazza molto curiosa, per capire certe cose ho bisogno di provarle: una di queste cose è stata il velo.  Quando ho iniziato a portarlo le prime parole che mi sono state dette erano: talebana, terrorista. Parole che io non sapevo nemmeno cosa significassero, ma nemmeno chi me le diceva sapeva bene cosa volevano dire. Quindi per me portare il velo è stato, e lo è tutt’oggi, una fonte di crescita personale, che mi porta a incontrarmi e scontrarmi con diverse realtà. Portare il velo per me è impormi per quello che sono e per quello che voglio essere, senza pensare a come gli altri mi vorrebbero, genitori o insegnanti a scuola. Dopo l’11 settembre 2001 ho subito episodi di discriminazione molto pesanti e facevo fatica a superarlo. Per quello i miei genitori non volevano che lo portassi. Poi c’è chi lo considerava anche un segno di imposizione patriarcale, maschilista. Io non l’ho mai visto così, per me è stata una doppia sfida quindi, che mi ha insegnato ad essere ciò che sono e tutt’oggi lo è. Le motivazioni e la consapevolezza cambiano di continuo, le mie scelte iniziali, non sono quelle di oggi e non saranno quelle di domani. Chissà se continuerò a portarlo. Sono tutte scelte personali, come decido di metterlo, posso anche decidere di non metterlo più e nessuno dovrebbe giudicarmi per questo. Per me è una scelta personale, anche a livello teologico e religioso. Quello che ho imparato dalla mia fede è di mettere l’intenzione alla base di tutto e “intenzione” significa scegliere di fare qualcosa. Scegliendola dai significato e valore e quindi anche gli altri devono darle significato e valore, anche se purtroppo non è sempre così.

Foto di Mouadh Ben Mohamed

Lo stesso concetto è spiegato anche nella quarta serie di SKAM, che affronta la storia di Sana e che afferma che portare il velo è un atto di femminismo. Quanto però questa rivendicazione è legata al fatto di voler abbattere degli stereotipi in Italia? Lo avresti voluto indossare anche se fossi rimasta in Tunisia?

In Tunisia il velo è stato vietato per legge, per parecchi anni, fino alla rivoluzione del 2011 e questo in pochi lo sanno al di fuori dei confini tunisini. Uno degli errori che spesso si fa è di considerare tutto il mondo musulmano, al di là del mondo arabo, come l’Arabia Saudita, perché non si conoscono i fatti. Per me questo è stato una grande problema, con il quale ho convissuto per anni a livello quotidiano. Sì è stato un atto di femminismo. Quando andavo alle superiori avevo una professoressa di matematica che non mi accettava. Ero l’unica ragazza col velo nella mia classe, l’unica di seconda generazione e a lei non piacevo. Dalla media del 9 sono passata alla media del 2. Puntualmente mi chiedeva delle donne afghane e io non ne sapevo nulla, perché non sono afghana e avevo 14 anni e a malapena sapevo quello che accadeva nel mio quartiere a Roma. Mi parlava come se fossi appena arrivata in Italia, mentre io ero cresciuta qui; mi trattava sempre come se appartenessi a un “voi” e mai come se facessi parte di un “noi”. Era inoltre convinta che io fossi obbligata a portare il velo e mi diceva che ero un insulto al femminismo, senza ascoltare quello che avevo da ribattere. Sono partita dal suo concetto di femminismo, che era molto ristretto ed eurocentrico, da donna bianca che deve salvare “le altre”, che magari fanno delle loro scelte, ma siccome vanno contro all’idea europea di femminismo, allora non vanno bene. In realtà la storia del femminismo si basa proprio sulla libertà di scelta, sulla consapevolezza della donna di fare una scelta che sia sua e non influenzata da altre persone, soprattutto dal genere maschile. Se poi quella scelta non è condivisa da altre donne, non è importante, è una questione di rispetto. Quello che per me può essere libera scelta, magari non lo è per un’altra. E questo è un concetto che nel mondo del femminismo è andato a perdersi, secondo me. Ci sono altri femminismi, quello islamico, quello nero, che forse non rispecchiano in toto l’idea di femminismo eurocentrico e occidentale, come per esempio la scelta di una donna musulmana di indossare il velo, anche come scelta religiosa. Partendo da questi concetti ho approfondito il femminismo. Ho sempre detto che l’incontro con queste persone negative per la mia vita, come la professoressa di matematica, il compagno fascista e molti altri, mi hanno permesso di scoprire nuovi pezzi di me, che non conoscevo e che davo per scontati. Per me tutto si fonda sul dibattito, ascoltare e capire l’altro, anche se non si è d’accordo con lui.

Spesso affermi che il disegno ti ha salvato e ti ha aiutata a comunicare con insegnanti e compagni di classe i primi anni in Italia. Quando hai capito che oltre a essere “terapeutica” per te, la tua passione poteva avere una valenza culturale e sociale nella lotta contro il razzismo e gli stereotipi?

Ho iniziato a fare volontariato culturale umanitario già all’età di 10 anni, appartengo a una famiglia che ha sempre fatto volontariato, sia in Tunisia sia in Italia. Quando partecipavo agli eventi incontravo sempre molte persone che avevano una storia da raccontare, le ascoltavo e, quando tornavo a casa, le disegnavo. Per me la scrittura e il disegno sono un’unica cosa, quindi raccontavo le storie con fumetti. Con gli anni ho iniziato a mostrare queste storie, durante questi eventi e le persone si interessavano, fino a quando dei professori universitari, avevo 14 anni, li hanno visti e li hanno pubblicati in un libro di Sociologia per l’Università. Era l’anno in cui a scuola andavo malissimo e invece fuori scuola avevo un’altra vita. Per me erano due mondi diversi che frequentavo nello stesso tempo. Lì ho iniziato con i blog, i primi social network e così si è anche allargato il pubblico. I miei genitori hanno sempre creduto in me, a tutti noi 7 figli hanno sempre insegnato a fare quello per cui siamo portati, perché lo facciamo al meglio, ci hanno sempre spinto a seguire le nostre passioni. Alle superiori mi dicevano di iscrivermi al Liceo Artistico, ma io non volevo, perché la società fuori mi aveva convinto che l’artista non era un vero lavoro. Dopo le superiori mi sono iscritta all’Accademia di Cinema e Animazione e mio padre mi ha detto “Finalmente hai capito la tua strada”.

Tu appartieni a quella seconda generazione, che sta emergendo, in questi anni e che sta portando alla ribalta modelli diversi, nei quali le terze e quarte generazioni possono finalmente identificarsi. Hai avuto anche feedback in questo senso? Giovani musulmani che si riconoscono nel tuo lavoro, ma soprattutto per i quali tu diventi un modello da seguire?

Non mi sono mai sentita un modello da seguire, piuttosto il contrario. È una domanda molto difficile. Vedo un sacco di ragazzi di seconda generazione che mi seguono, giovani musulmani, che mi fanno molti complimenti e mi dicono “vogliamo diventare come te”. In realtà spero facciano molto meglio di me, perché io mi sono ritrovata con moltissime porte chiuse in faccia e ho dovuto lavorare per costruirmi la porta da aprire, cosa che non vorrei succedesse alle generazioni che stanno crescendo adesso.

Mi piace molto l’attenzione che poni nell’evidenziare la differenza fra multiculturalità e interculturalità, puoi sintetizzarla qui. 

Aggiungerei anche la transculturalità, che è quella che sta prendendo più spazio nella cultura italiana ed europea in generale, oggi. La multiculturalità è raccontare le prime migrazioni, le persone che sono migrate da adulte, che avevano già un bagaglio culturale e se lo sono portate dietro. Le seconde generazioni invece appartengono all’intercultura, perché nascono e crescono qui oppure arrivano da talmente piccoli, che non hanno ancora un bagaglio culturale e crescono in una cultura mista, vivendo spesso il paradosso di non sentirsi parte né della cultura di origine della famiglia né di quella nella quale sono nati e cresciuti. Adesso invece c’è una generazione transculturale che sta crescendo, perché oltre a figli e nipoti di famiglie migranti, nati e cresciuti qui, c’è tutta una generazione di figli di famiglie italiane che crescono stando a stretto contatto con bambini di origini miste e che non percepiscono le differenze, come le percepiscono gli adulti. Gli adulti si pongono dei muri, che molto spesso nelle nuove generazioni non esistono.  Il mio primo muro è stato quello che, sia io sia il mio compagno fascista, abbiamo disegnato sul nostro banco, con il pennarello indelebile, per delimitare i nostri spazi. È stato facile costruire quel muro, senza in realtà vedere quello che ci rendeva simili, romperlo ha richiesto molto impegno da entrambe le parti. Cosa significa oggi dire siamo italiani, siamo tunisini, siamo egiziani… basta andare indietro nella storia e vedere come tutti i popoli hanno storie di migrazione alle spalle, storie stratificate a livello culturale, di lingua, di religione. Non esiste qualcosa di autoctono e il Mediterraneo ne è più testimone del resto del Mondo.

Foto di Mouadh Ben Mohamed

Finalmente da qualche mese hai ottenuto la cittadinanza italiana, dopo 23 anni che sei in Italia. Cosa è stata la prima cosa che hai fatto dopo averla ottenuta? Vuoi raccontare, magari partendo proprio dal tuo vissuto, perché è importante rivedere la legge sulla cittadinanza?

Quando ho fatto il giuramento da cittadina italiana, mi sono ritrovata automaticamente clandestina, perché tutti i documenti da straniera decadono, ma non hai ancora i documenti italiani. Quindi effettivamente non ho potuto fare nulla, per un po’. Volevo andare a votare, ma non avevo ancora i documenti e quindi nono sono riuscita a prendere la scheda elettorale. Finalmente però ho potuto viaggiare liberamente senza che mi venisse richiesto il permesso di soggiorno. La legge sulla cittadinanza non è solo una questione identitaria, io mi sono sempre considerata italiana, la cosa buffa e che fra tutti noi fratelli l’unico, che non ha ancora la cittadinanza, è quello che è nato a Roma, qui nell’ospedale dietro casa. L’errore della legge è proprio quello, andare a escludere chi ne ha più diritto. Però chi la considera solo una faccenda di identità non ha capito molto. Ovvio che noi ci sentiamo italiani, siamo nati o cresciuti qui, ma non devo convincerli io. Ci sono però tutta una serie di altre cose che ci vengono negate, perché non abbiamo la cittadinanza, per esempio io non ho potuto fare l’esame da giornalista; mio fratello ha fatto 5 anni di giurisprudenza per poi non poter fare la pratica e l’esame da avvocato. Pensiamo allo sport, un ambito nel quale non dovrebbero esserci discriminazioni, ma purtroppo ci sono ragazzi che eccellono in alcune discipline, ma non possono praticarle a certi livelli.  Spesso per lavoro viaggio al di fuori dei confini europei, uscire non è mai un problema, ma rientrare  lo è quasi sempre, sono stata bloccata tantissime volte, perché fuori dall’Europa non sanno come è fatta una carta di soggiorno, tra l’altro ancora cartacea e non digitale, quindi facilmente falsificabile, loro cercano un visto sul passaporto, viaggi sempre con l’ansia di essere rimpatriato, nel mio caso in Tunisia, un Paese che non è il mio. Oggi ci sono ancora 1,5 milioni di giovani che in Italia stanno aspettando la cittadinanza e non sono pochi, andrebbe considerata come un’emergenza.

Kubra Gumusay nel suo libro “Lingua e Essere” spiega come le persone che parlano più lingue, perché provenienti da luoghi colonizzati o perché in seguito a migrazioni hanno vissuto in luoghi diversi durante la loro vita, affidano a ogni lingua un sentimento diverso e utilizzano una determinata lingua in situazioni differenti, a seconda anche dell’immagine di sé, che vogliono mostrare in quel momento. Tu parli 4 lingue (francese, arabo, italiano e inglese) anche per te è così?

Questo è un aspetto fondamentale nella costruzione dell’identità. Io uso quotidianamente 4 lingue diverse e anche quando sogno, a seconda dell’ambientazione, sogno in una determinata lingua. A queste 4 lingue si aggiungono gli accenti e i dialetti. L’essere cresciuta a Roma mi ha dato la possibilità di incontrare altre cittadinanza del mondo arabo e mi sono accorta che cambio il mio dialetto arabo a seconda della persona con la quale sto parlando. Oltre al romanesco, che dopo gli studi a Firenze ho un po’ perso. Non sono invece una grande amante del francese, anche perché è una lingua che mi è servita a poco, e una cosa che mi ha molto infastidito, ogni volta che sono tornata in Tunisia, dopo la rivoluzione, è stato l’atteggiamento dei tunisini, appartenenti a una certa elite, di classe media-alta, che mi accusavano perché, in quanto tunisina, non sapevo parlare in francese, quando per me la lingua della Tunisia è l’arabo. Perché in quanto tunisina devo parlare il francese? Ora lo parlo perché metà dei miei nipoti parla in francese, allora l’ho studiato. Però questo mi ha aperto gli occhi, soprattutto rispetto ai Paesi colonizzati, dove se una persona non è bilingue, nella lingua di chi ti ha colonizzato, viene visto malissimo. Che io sappia parlare altre 3 lingue, non ha nessuna importanza. Allo stesso tempo è grave che le prime generazioni non apprendano la lingua del Paese nel quale si sono trasferiti, che poi è la lingua che imparano i loro figli e del contesto nel quale crescono. La lingua è un segno di indipendenza.

Fai volontariato fin da quando avevi 10 anni, infatti nel tuo lavoro non ti limiti a rappresentare il tuo mondo, ma hai toccato anche altri temi, come la tratta di umani fra Cambogia e Thailandia, sei stata la prima artista in Italia a realizzare una striscia sulla morte di George Floyd, sei scesa in piazza per le manifestazioni contro la guerra in Siria. C’è un filo rosso, tuo personale, che riconduci in tutte queste attività?

Il filo conduttore è la mia sensibilità per queste tematiche, un po’ perché ho vissuto la dittatura nella mia infanzia in Tunisia e avendo due genitori e familiari ex attivisti, chi ammazzato in carcere, chi esiliato, sono sempre stata sensibile a queste tematiche. Anche al mio arrivo in Italia ho sempre partecipato, con i miei genitori, a manifestazioni per i diritti umanitari. Sono convinta che per essere sensibili basta essere umani e non per forza aver vissuto sulla propria pelle determinate cose, basta capire che non tutti viviamo nelle stesse condizioni. Per esempio il lavoro fatto sulla tratta di umani fra Cambogia e Thailandia, si conclude con un’osservazione sui passaporti: non è vero che tutti gli essere umani sono uguali, nel momento in cui i passaporti sono diversi. Il passaporto italiano è l’ottavo passaporto più forte al mondo. I primi due sono Giappone e Singapore. Quello afghano, quello siriano non valgono nulla, molti Paesi dell’Africa hanno passaporti che non valgono niente, dove c’è povertà automaticamente, come essere umano, diventi senza valore, vieni anche privato della tua identità. È quindi veramente importante non dare per scontata la cittadinanza alla quale si appartiene. Vi faccio un altro esempio: quando ero alle scuole superiori e si studiava il colonialismo, ci veniva insegnata solo la visione del colonialista, raccontata come se fosse un’opera di civilizzazione. Mio padre, insegnante, quando tornavo a casa mi mostrava l’altra faccia della medaglia, ovvero il punto di vista di chi è stato colonizzato per 300 anni, per me è stato molto importante, perché ho capito che gran parte dei fatti che studiavo, dovevo poi andare ad approfondirli da sola. E questa è una grandissima lacuna, soprattutto per poter capire cosa succede oggi in alcune parti del mondo e come questo influisce sulla nostra quotidianità. Perché c’è razzismo oggi? Andiamo a vedere la storia del colonialismo. Anche le persone che si pongono nella maniera più aperta possibile, non si accorgono che nel loro linguaggio usano parole che risalgono al colonialismo e al linguaggio razzista che c’era all’epoca. Non si vede mai l’altro essere umano, come nostro pari.

Sei stata eletta da D- la Repubblica “donna dell’anno” insieme a Liliana Segre e ad Ambra Sabatini, cosa ha significato per te questo riconoscimento e il fatto di condividerlo con Liliana Segre e Ambra Sabatini?

Per me è stata un sorpresa e mi ha fatto molto piacere. Per tanti anni ho lottato con i media, soprattutto i primi anni della mia affermazione professionale, venivo considerata “la ragazza col velo che fa fumetti”, ero privata del mio nome  e della mia identità, oppure venivo usata e invitata ai talk show, casualmente, quando c’era un attacco terrorista. Non ci andavo mai, perché sapevo che venivo strumentalizzata e non per la mia professione. Il premio di D-La Repubblica è stato un riconoscimento della mia identità e della mia professione e averlo condiviso con Liliana Segre e Ambra Sabatini per me è ancora più un onore.

Tuo padre nel documentario “My name is Takoua” dice che ovviamente pensa di ritornare in Tunisia perché “quel sogno che ha sognato, ora lo vuole vivere”. Per te invece cosa rappresenta oggi la Tunisia? Ci sei più tornata?

Mio padre dice così, ma sa che non potrà mai tornare, perché ha figli e nipoti qui. Mio fratello più piccolo è adolescente e mio padre sa che se dovessero tornare ora in Tunisia, questo significherebbe sdradicare mio fratello dalla sua vita, cosa che molte famiglie in esilio hanno fatto e sono tornate in Tunisia. Mio padre dice così, ma sa che non potrà mai farlo. Personalmente sono 4 anni che non torno in Tunisia, ci sono tornata poche volte, solo per cercare delle cose che appartenevano alla mia storia personale, per scrivere il mio secondo libro, “La storia dei gelsomini” e conoscere i miei parenti e mia nonna, che ormai non c’è più e che non vedevo da quando avevo 8 anni. Per me la Tunisia è un’identità culturale, della quale ho capito il valore solo dopo la rivoluzione, quando ci sono tornata. Per tanti anni l’ho ignorata, ma poi ho capito di appartenere anche a quella realtà, quindi ho ripreso a studiare arabo e francese e a recuperare l’identità culturale. Oggi non ci tornerei a vivere, un mio fratello e una mia sorella ci sono tornati per un po’, ma se io dovessi tornare lì non ho niente e nessuno, anche la mia professione lì non avrebbe sbocchi. Io sono conosciuta in Italia, lì no.

Progetti per il futuro?

L’anno prossimo uscirà il volume due de “il mio migliore amico è fascista”

 

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