Cinema
Suburra e così sia
«Suburra» è arrivato al cinema con un tempismo perfetto. Nei giorni immediatamente successivi alla resa del sindaco Marino – che infatti si è fatto vedere alla prima del film -, quando tutti, proprio tutti, sono impegnati a parlare della capitale corrottissima di un paese sempre più infetto. E nel film di Stefano Sollima ci sono tutti: Carminati, i Casamonica, gli speculatori di Ostia, i politici puttanieri e opportunisti, il progetto Waterfront, le immancabili escort, i traffichini. Un affresco neanche troppo immaginario, praticamente una guida a Roma per i non romani, visto che si tratta per lo più di personaggi ed situazioni reali, più volte passati nelle pagine delle varie cronache.
Alla base di tutto c’è il libro omonimo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, stirato poi per il cinema dagli immarcescibili Rulli e Petraglia, i due sceneggiatori che appaiono praticamente in ogni lavoro che pretende di avere un certo spessore. La storia è nota: una specie di seguito di Romanzo Criminale, i cattivi ragazzi della Magliana non ci sono più, qualcuno è sopravvissuto e ha capito che per fare affari deve guardare alla politica, mentre nuovi gruppi malavitosi cominciano a pijasse Roma.
Chiariamo subito una cosa: il film è bello. La qualità c’è, la regia è ottima, la fotografia colpisce, la colonna sonora degli M83 è potente e solenne, bellissima, persino gli attori sono tutti bravi. C’è Pierfrancesco Favino che fa il politico con la celtica al collo che si mette nei guai e per salvarsi incappa in una famiglia di zingari dedita ai traffici più loschi; c’è un sorprendente Claudio Amendola, nella parte del Samurai, cioè una specie di Massimo Carminati, l’uomo che sta nel mondo di mezzo, che dal bar di un benzinaio tesse i rapporti tra i gruppi criminali e ogni tipo di potere, politico e religioso; c’è Elio Germano, mite e codardo pr discotecaro che si ritrova a dover gestire i debiti del padre palazzinaro suicida; c’è l’interessante Alessandro Borghi (già visto all’opera nell’ultimo di Caligari) che fa Numero 8, da Ostia con tanto furore e poco cervello. Ci sono due figure femminili non scontante: la escort che ha visto troppo (Giulia Elettra Gorietti) e la fidanzata del boss Viola (Greta Scarano). Tutto molto bello, davvero. Sparatorie, fughe in auto davvero innovative, scene di azione girate con un piglio e un gusto registico raro.
Dentro «Suburra» c’è molto dell’inchiesta della procura di Roma su Mafia Capitale, soprattutto si coglie quello che oggi è lo spirito della città. Un gran casino un po’ impersonale – in effetti: la mitica ‘gente’, vera protagonista di questa stagione politica, non c’è mai, se non di sfuggita -, un posto pieno di ombre che si agitano, violenza quando serve, cioè sempre, criminali arricchiti che si presentano negli uffici dei manager e parlano sì e no in dialetto ma sanno come farsi ascoltare. E l’affresco riesce, forse addirittura meglio che nel romanzo, in cui si respira un po’ ovunque retorica giornalistica (ma non è necessariamente un male).
I problemi sono due, uno di ordine storico e uno di ordine politico. Il politico: l’idea che muove la storia, ovvero la volontà di far diventare Ostia una specie di Las Vegas a colpi di speculazione edilizia, è un affare che riguarda il Comune di Roma, non il Parlamento. Si tratta di urbanistica, e comunque Mafia Capitale è un fenomeno cresciuto più che altro in seno al Campidoglio. Ecco, il sindaco (qualsiasi sindaco, eh, non necessariamente il gran colpevole Alemanno) non appare mai nel film. Ci sono i preti – addirittura Ratzinger – ma non c’è er primo cittadino. Questo primo problema è strettamente legato al secondo: spostare l’obiettivo dal municipio al parlamento è servito per tirare in mezzo Berlusconi. La storia si svolge negli ultimi sette giorni del suo ultimo governo (di cui tutti conoscevano la data di scadenza, tranne i politici…), e lui è una presenza che aleggia costante su tutta la storia, più o meno citato, più o meno discusso. Però, per onestà intellettuale, bisogna ammettere che se c’è una cosa con cui il caro Silvio non si è mai sporcato le mani, è proprio la malavita romana. Troppo distante dal suo mondo, anche geograficamente. Eppure nel film lui c’è, ed è sin troppo facile qui vederci una specie di accanimento, che oggi come oggi sa pure un bel po’ di necrofilia. Non fa niente, anche perché l’unica vera pecca della sceneggiatura arriva nel finale, quando Favino si abbandona a uno stiracchiatissimo spiegone («Sono un deputato, sono intoccabile, la procura non può farci niente») e quando Amendola dice che se cade il governo e vincono quegli altri, si troverà un nuovo referente anche da quelle parti. Insomma, la morale di fondo è: sono tutti uguali. Vi ricorda qualcuno o qualcosa?
Marco Giusti ha paragonato questo Suburra a un capolavoro come True Detective. Probabilmente è stato un po’ avventato il suo giudizio, la distanza tra i due prodotti è ancora tanta, troppa. Certo, fa ben sperare che dietro Sollima ora ci sia Netflix, che produrrà anche una serie da questa storia. Qualcosa si muove, insomma, anche se il miracolo cinematografico è ancora lontano. La buona notizia è che il cinema italiano si è mosso. Finalmente in grande stile.
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