Cinema

Sponz Fest Cronache 5. Come dentro un film, 23 agosto 2018

24 Agosto 2018

Cosa c’è di più selvaggio dell’amore? E di legarsi a qualcuno in via definitiva, assoluta e ancestrale? Erano pensieri che aveva per la testa, mentre la mattina era cominciata da un pezzo, e lui si era preso un po’ di tempo per riposare e per tornare a casa, dopo due giorni a vagabondare per le strade di quel paese che fino a quel momento non aveva mai sentito suo, e in cui comunque stava girandi, tra un incontro e un altro, un personaggio e un altro. E a casa non gli avevano domandato niente. Come al solito, non avevano voluto sapere niente di quel figlio che di prodigo sembrava avere poco. Si era fatto la barba, passandosi la mano sul viso aveva sentito dei punti in cui graffiava, e in quel momento tutto avrebbe accettato meno che avere sul proprio corpo ogni minima sembianza animale, pelurie comprese. Si era anche lavato, messo del profumo, e dopo aver fatto velocemente colazione era uscito fuori, di nuovo per il corso a vedere che aria tirava.

Che fosse tutto un’invenzione, che il concetto di straniero e di selvaggio fosse un’invenzione, una forma di alterità partorita solo per questioni di economia e di mercato, qualcosa al servizio della pura retorica capitalistica? Erano tutti dubbi che affollavano la sua testa, mentre ascoltava le parole di uno di quegli appuntamenti della Libera Università per Ripetenti a cui per curiosità si era iscritto. E allora anche il suo essere un mannaro poteva essere un’invenzione, qualcosa di cui lui subiva solo le conseguenze, e a cui non si poteva ribellare. Un diverso, ecco come lo dovevano considerare quelli che lo conoscevano, i vicini di casa, i parenti, gli amici. Un essere diverso che stava trovando una voce, uno che in qualche maniera era stato riconosciuto dalla ragazza occhi verdi che aveva incontrato due giorni prima.

Una possibilità, avrebbe voluto averne almeno una, non come quegli uomini in gabbia che stava vedendo nel film che stavano mandando in proiezione per la rassegna d’arte in programma per quei giorni. Lesse il titolo di quel cortometraggio: The couple in the cage. Era stato realizzato nel cinquecentenario della scoperta dell’America e in esso gli artisti che lo avevano realizzato si erano travestiti da uomini primitivi facendo finta di essere degli amerindi non ancora scoperti e rinchiusi dietro delle sbarre. Ripetendo questo esperimento otto volte in varie parti d’America e filmando tutto, i suoi ideatori arrivarono alla tragica scoperta che in molti casi le persone che avevano osservato la scena non avevano provato alcun stupore al fatto che ci fossero nei nativi, dei primitivi, chiusi in gabbia. E pensò che la sua gabbia era quella strana forma di esistenza che si trovava a dover affrontare. Quel suo dovere necessariamente fare pace con quel sue essere doppio che albergava in lui.

Passò oltre, cercando nel programma di quella giornata qualcosa di più rasserenante. Qualcosa che fosse meno legato alla sua stessa natura, magari un posto dove poter sognare e respirare. Della ragazza occhi verdi non c’era traccia, anche lei faceva parte di quell’affresco e gli sarebbe piaciuto rivederla, incrociarne nuovamente gli occhi che tanto lo stavano facendo emozionare. Ma di lei non aveva notizie e non sapeva nemmeno dove andare a cercarla. Ed era una pura questione di accoglienza, era questo che rendeva quella ragazza tanto speciale ai suoi occhi, il fatto che da subito lo avesse saputo accettare per come era, e non ponendo steccati, né comportamenti discriminanti verso lui che si sentiva diverso, ed era evidentemente diverso dalla maggioranza della gente che in quei giorni si poteva incontrare per le strade di Calitri.

Al suo orecchio arrivarono delle musiche, ogni pomeriggio era dedicato al suond-check dei gruppi che si sarebbero esibiti sul palco. Lui guardò l’orologio, le 18.20. Quelle che stava sentendo erano musiche che sarebbero state benissimo in un cinema, dovevano essere solo delle prove, visto che il concerto al tramonto non sarebbe cominciato prima delle ore 20. Si avvicinò dalla parte da cui arrivavano quelle musiche, la scena era la stessa della sera prima, quando nell’aria si poteva respirare musica antica. Musica per uomini selvaggi, music for wilder mann, era questo il titolo del concerto di Theo Teardo a cui avrebbe assistito quella sera, ne lesse meglio i dettagli nel programma. E alle spalle di quel musicista apparvero nel corso dello spettacolo alcune figure gigantesche e totemiche di uomini bestie immortalati nella loro natura selvaggia e clandestina da un fotografo che di esse fece un libro.

Lo spazio all’interno del quale quella musica si stava misurando cominciò lentamente a mutare, trasformandosi in un grande cinema all’aperto, ubicato proprio nel centro del paese, accanto alla chiesa di San Canio. Lo schermo era posizionato esattamente dal lato opposto a quello in cui tramontava il sole, e la gente stava cominciando a mettersi in fila al botteghino. C’era un uomo un po’ basso che a gran voce invitava i passanti a fermarsi, annunciando il titolo e la storia del film. Una grande storia d’amore, diceva sintetico l’uomo, quando non aveva voglia di dilungarsi troppo sui dettagli di essa. A volte, invece, si dilungava nei particolari, ammaliando tutti. A chi non aveva spiccioli per fare il biglietto quell’uomo diceva che si poteva entrare lo stesso, e che i soldi gli avrebbero potuti portare anche il giorno dopo. Approfittando di quel privilegio entrò anche il mannaro e si andò a sedere a metà dell’arena, in un punto in cui poteva stendere bene le gambe.

La proiezione cominciò, la musiche erano da capogiro, esattamente come quello del concerto a cui aveva assistito poco prima. Mandavano una pellicola in bianco e nero, scene di guerra, e del dramma di un soldato che non voleva lasciare la famiglia nonostante fosse stato chiamato al fronte. Il ragazzo prova a nascondersi, a camuffarsi, e a inventarsi di tutto pur di evitare di imbracciare il fucile e di partire per la guerra. Lui dall’arena aguzza meglio la vista, e si riconosce nella fisionomia del soldato, di quel ragazzo che sembra non voler accettare la realtà a cui viene chiamato, anzi è proprio lui. Nelle scene successive appare anche una ragazza, la fidanzata del soldato, che prova a convincerlo che sarebbe meglio non resistere, e che dovrebbe andare dove la sorte lo chiama, e che tanto lei lo amerà lo stesso, e che quella cosa servirà se non altro per garantire a entrambi un futuro, a loro due e ai figli che Dio vorrà donare. Lui guarda ancora meglio, la ragazza sembra avere gli stessi occhi della ragazza occhi verdi, anzi deve ammettere che è proprio lei. Nel petto sente battere qualcosa che non aveva mai sentito prima. Sullo schermo proseguono le scene, e ci sono loro due che prima di salutarsi, si baciano a lungo, e la musica sotto strappa dentro di lui tutto quello che c’è da strappare. Il soldato guarda la ragazza occhi verdi, la stringe a se prima di andare via, le dice che la ama, e che spera di poter tornare presto. E la chiama per la prima volta in tutto il film con il suo nome, Alba di Luna.

Alcune delle immagini sono di Giuseppe Di Maio

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