Cinema

Il sacro al tempo del marketing. Intervista alla regista Irene Dorigotti

13 Luglio 2024

Across è uno dei film più interessanti visti alle Giornate degli Autori all’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Abbiamo intervistato la regista e antropologa Irene Dorigotti, che è tornata a vestire la divisa scout per dirigere un road movie spirituale, personalissimo, inquieto e poetico, complici le animazioni di Simone Rosset, le immagini d’archivio della famiglia Dorigotti, di Archivio Home Movies, di Superottimisti e della RSI Radiotelevisione svizzera.

Il film inizia con l’esposizione della Sindone a Torino, dove l’evento è fonte di grandi profitti, come ormai appare scontato in un’epoca in cui la turistificazione è fuori controllo. Lì c’è Gesù, ha 29 anni e vive in città

Avevo partecipato al progetto collettivo Sovraimpressioni, ideato dal regista Daniele Segre della casa di produzione Cammelli di Torino, che nasceva con l’intento di creare un film sulla Sindone attraverso il contributo di dieci autori. Io ero l’unica che lavorava da sola e che non è torinese. Nonostante l’entusiasmo iniziale, Segre ha deciso di chiudere definitivamente il progetto dopo due mesi di riprese, dichiarando che nessuno dei dieci autori aveva rispettato le sue aspettative.

Nei pressi della Sindone incontrai Marco Rezoagli, che interpretava Jesus in Turin. Era il “Gesù di Facebook”, ma la gente lo trattava come un Gesù vero. Marco aveva montato il film SmoKings di Michele Fornasero. La notte guardavamo i girati e montavamo i giornalieri, oltre ad andare ai concerti o a bere birre. La maggior parte delle sere Marco mi ospitava nella sua stanza frugale alla Cavallerizza occupata, dove aveva allestito la sua stanza studio. Non aveva lampadine mai, guardavamo i materiali a lume di candela. Salgo la rampa di grandi scale e apro la porta di legno, che è sempre accostata. Dentro la  stanza di Marco c’è un soppalco con un materasso, un tavolo, due sedie, un computer, una coperta turca, una brocca, una candela, uno specchio, dei libri e un taccuino. Abbiamo passato del tempo quasi in simbiosi, chiedendoci cosa sia il sacro ai tempi del marketing. Poi ne ho fatto un film.

Irene Dorigotti con

Anche in un suo cortometraggio del 2020, Herz-Jesu-Feue, c’era Gesù. Lei è anche antropologa e ha raccontato una tradizione altoatesina con cui si invoca l’aiuto divino, all’epoca per scongiurare l’arrivo delle truppe di Napoleone.

Quel film, più che sacro, è politico. Sono trentina, vuol dire avere un’identità bastarda: abbiamo perso il senso del confine negli anni ottanta. Si usavano i fuochi del sacro cuore per piazzare le bombe e far esplodere i tralicci per chiedere di essere separati dall’Italia. La mia famiglia storicamente è stata anti-italiana, anche se di lingua e cultura italiana. Quel cortometraggio mostra l’accensione dei fuochi organizzata dalla famiglia Stimpfl, su un grande prato a strapiombo sulla valle dell’Adige: i genitori indicano ai bambini gli altri punti luminosi che punteggiano le cime circostanti, mentre sullo sfondo sventola una bandiera del Tirolo storico. Sotto lo strato religioso, questa cerimonia oggi ha ancora molto di politico, in un intrico difficile da sbrogliare. A fine Settecento il Landstände, la Dieta tirolese, preoccupata per una possibile invasione, si riunì a Bolzano a Palazzo Toggenburg e decise, su suggerimento dell’abate dell’abbazia di Stams Sebastian Stöckl, di pregare e affidare il Tirolo al Sacro Cuore di Gesù. Nasce così il 3 giugno 1796 la tradizione degli Herz-Jesu-Feuer, i fuochi del Sacro Cuore di Gesù, una tradizione in seguito recuperata con uso politico dagli Schützen dell’insorgenza tirolese del 1809 e poi dall’indipendentismo sudtirolese durante il Fascismo (quando i fuochi furono vietati) e nel Dopoguerra. Quando ero piccola avevo un sarner, che è una giacca che solo le famiglie tedesche possono indossare. Avevo tre anni, ora che ne ho trenta la mia amica Adele me ne ha regalata una dicendomi: “Ecco, ho ritrovato la giacca di quando eri piccola”. La indosso spessissimo, specialmente a Torino o nelle città dove non ha un significato politico. Mi piace pensare di aver ritrovato un pezzo di quell’identità che profuma di prati e di fieno e di italiano misto tedesco. In vacanza in Val Sarentino mi dicevano sempre “Che bel nome hai, è un nome così tedesco!”  e sentivo che in quegli sguardi c’era la volontà di una lingua pulita, diversa dall’ Hochdeutsch [il tedesco insegnato nelle scuole trentine e usato nei documenti ufficiali, ma che non corrisponde a quello realmente parlato]. Ma allo stesso tempo questa terra è ancora piena di trincee e di ferite aperte, sotto un’apparenza di marketing e di super luogo turistico.

Cultura scout e viaggi in quello che spesso viene chiamato “Sud globale” sono invece tradizioni della sua famiglia. In che modo la formazione in casa e accademica accompagna le sue regie e si inserisce nel suo universo poetico?

Mi era stato chiesto di scrivere un saggio di antropologia visiva ed era uscito troppo poco accademico. Avendo vinto un dottorato in Antropologia visiva a Manchester sono scappata. Partecipo a bandi per viaggiare e scoprire cose nuove di continuo. Siamo sempre stati gli strani del paese, ma con soli 600 abitanti è semplice. Perché viaggiavamo, mangiavamo più tardi, io saltavo mesi interi di scuola perché ero in viaggio con mio padre. Mia madre è ortottica e ci ha educato a guardare più lontano. Immaginate il senso di crescere in maniera privilegiata viaggiando molto fin da piccola, e di essere in un piccolo paese: mi ha permesso di vivere in una maniera più fantasiosa rispetto al resto dei miei coetanei. Ricordo di essere stata l’unica che dopo aver visto Dumbo aveva visto un elefante reale, in Thailandia, a otto anni. Il mondo dei nostri viaggi in famiglia si manifesta colorato come la curcuma e le caramelle, in luoghi dove la vita è radicalmente differente. Passiamo il tempo mangiando cibi diversi e assimilando filosofie e credenze di altre culture, per poi tornare a casa e aver imparato a salutare in trenta lingue diverse. Mio padre mi ha trasmesso inoltre un modo decodificato per darsi alla fuga, ma anche la convinzione che il viaggio sia la miglior forma di educazione. Le nostre case, i nostri viaggi e la mia educazione fuori dal comune, sono rimasti costanti durante tutta la mia infanzia. Mamma mi chiamava affettuosamente “cucciolo”. Le versioni di se stessi di cui ci si può disfare sono infinite? Oppure c’è un numero prefissato? Se mi liberassi di me in una nuova versione ogni giorno? Ma tutta questa meraviglia ha degli effetti collaterali. Per tutti i miei amici del paese ero quella strana. Mi hanno sempre considerato una disadattata cronica. Ho sempre provato un’attrazione per il mondo esterno, per vedere cosa c’era e cosa potevo immaginare e percepire. Mia madre ha cercato di far sentire me e mia sorella parte attiva della nostra comunità e protagoniste delle nostre scelte. E possiede tutt’oggi la capacità di riordinare tutto e di aggiustare le nostre vite come se fossero puntellate e fragili come il kintsugi kin (oro) e tsugi (unire), che significa “aggiustare tramite l’oro”. Ovvero, era convinta che esponendo le nostre imperfezioni e ferite può nascere una forma ancora maggiore di perfezione estetica e interiore.

Il viaggio di Across tocca Italia, Messico, Vietnam e Cambogia, dove Lei si confronta con molti interrogativi. E nel confessarsi in chiesa parla delle telefonate di suo padre.

Ho sempre tentato di mettere alla prova i miei strumenti di comprensione per capire visioni del mondo anche molto distanti dalla mia cultura. Non è un percorso semplice: il confronto può mettere in discussione le proprie certezze, spesso il sapere genera nuovi dubbi. Ho passato il tempo a comprendere perché le altre culture chiamassero Dio con nomi diversi. Nella difficoltà, persa tra mille possibili interpretazioni, provo ad orientarmi verificando la plausibilità scientifica di alcune intuizioni, cercando un discernimento logico, razionale. Sorprendentemente ho scoperto molti punti di contatto tra campi del sapere apparentemente distanti. La costante sembra però essere – ancora una volta – l’assenza di una realtà unica e monolitica. Forse il grado maggiore di universalità risiede più nelle domande che nelle risposte. Malgrado tutte le differenze sociologiche, psicologiche, culturali e religiose, in ogni tempo e in ogni luogo, uomini e donne si sono posti e continuano a porsi le stesse domande: chi sono? Che ci faccio qui? Che senso ha la mia esistenza? Come funziona il mondo? Mossa da queste domande ho cercato e trovato una grande varietà di risposte, tutte molto interessanti, ma nessuna in grado di metterci tutti d’accordo.
E se questo non fosse un problema? Oggi la religione è un sistema di compensatori generali basati su convinzioni sovrannaturali. Fin da bambino l’individuo cerca ricompense che sottolineino il merito e la positività. Crescendo si fa ricerca di ricompense sempre più complesse, anche al di là della vita, per cui si entra nel sovrannaturale. Non accessibili in vita però, per cui si dice che vengano sostituiti da compensatori: non viene data la ricompensa subito, ma un domani, dopo la morte. Per credere ai compensatori bisogna credere a qualcosa di sovrannaturale. Mio padre è trentino, da noi si fanno cose concrete: non è possibile immaginare o perdersi in emozioni. Anche adesso, che sto rispondendo a queste domande, mi ha appena chiesto mentre guardava la televisione in salotto cosa stessi facendo.

Irene Dorigotti scout

Across è originale e personale. E pur essendo un documentario, ha momenti di finzione, di fantasia, di abbandono all’immaginazione, come ad esempio la sequenza del rito dei battitori della croce.

Ho deciso di reinventare un rituale partendo dal Candomblé in Brasile, combinandolo con il Carnevale dei Mammutones in Sardegna, per eseguire una mimesi del sacro. Ho assistito a una liturgia pentecostale e ho osservato le persone in trance, notando che spesso c’era un ritmo costante. Quando siamo andati a selezionare i performer per il film e il rituale, abbiamo cercato sei sardi e sei afro-discendenti. Le persone che si sono presentate erano del Burkina Faso e in particolare c’era tra loro un cantastorie che conosceva la cultura dei Dogon. Questa sequenza attinge da diverse tradizioni. Dal Candomblé, prende l’elemento della trance e del ritmo costante, che è fondamentale per entrare in uno stato di connessione con il divino. Dal Carnevale dei Mammutones, integra l’uso delle maschere e delle danze rituali che evocano antichi riti di fertilità e di protezione. I Mammutones, con le loro maschere nere e i campanacci, rappresentano figure ancestrali che scacciano gli spiriti maligni e celebrano la rinascita. La tradizione Dogon, portata dal cantastorie burkinabé, aggiunge un ulteriore strato di profondità al rituale. I Dogon sono conosciuti per i loro complessi sistemi di cosmogonia e le loro maschere elaborate utilizzate nei riti di passaggio e nelle cerimonie funebri. La combinazione di questi elementi crea un rituale unico che esplora la sacralità attraverso diverse culture e pratiche spirituali. Nel rito dei battitori della croce, i partecipanti, divisi in due gruppi, sardi e afro-discendenti, eseguono una danza ritmica attorno a una grande croce di legno. I movimenti sono sincronizzati con il battito dei tamburi, richiamando il ritmo ipnotico del Candomblé.

Come veniva inizialmente recepito ai film pitch un progetto tanto insolito già nella sua fase iniziale?

Ci hanno creduto quattro o cinque persone, gli altri pensavano fossi matta. Però convinta al punto di vincere il Premio Solinas e di partecipare a Torino Film Lab. Across ha avuto una gestazione lunga. Ha attraversato diverse produzioni ed è nato, come dicevo prima, dal progetto Sovrimpressioni: Daniele Segre mi aveva scelta fra gli autori, ma il progetto fu chiuso. A me invece il materiale raccolto non sembrava così male, perciò nella stessa estate del 2015 con Giovanni Giordano ci siamo trasferiti nella mia casa di montagna, dove abbiamo fatto base per mettere in fila dei materiali raccolti e ci siamo appoggiati per alcuni passaggi tecnici allo studio di Jump Cut. Nel periodo in cui non riuscivo ad ottenere fondi sufficienti c’è stato l’interesse di produttori indipendenti e di selezionatori di festival internazionali incontrati nelle sezioni industry, tra cui Caterina Mazzucato e Antonio Pezzuto. Nel 2017 a ventinove anni ho vinto il Premio Solinas Miglior Documentario per il cinema. Al Biografilm il progetto era piaciuto a Laura Nicotra, ma Rai Cinema in seguito aveva dato un parere provvisoriamente negativo perché lo giudicava prematuro. Nel 2020 Giovanni Cioni ha chiamato Carlo Hintermann, che a sua volta è entrato nel film e ha convinto Riccardo Annoni della casa di produzione Start ad entrare a sua volta. Il film si è salvato solo allora. Circa un anno dopo Rai Cinema lo ha co-prodotto.

Ha vissuto l’occupazione della Cavallerizza a Torino. Con il governo Meloni le occupazioni sono più che mai sotto attacco. Cosa ha significato quell’esperienza per la sua pratica artistica?

Certi film non si scelgono, è la vita che li sceglie. Anche War of imagination, cui sto lavorando con Simone Rosset, ne è un esempio. Nel 2018 dopo un mese di viaggio in Messico ho capito che quello che stavo vivendo doveva trasformarsi in un film, così ho iniziato ad usare la mostra Here in cavallerizza come fosse un set dove far muovere e integrare i miei personaggi. Gli artisti mi hanno  stupito ed hanno organizzato opere perfette per il “set”. Le riprese, di giorno in giorno, anno in anno, erano la cartina tornasole delle interazioni di ogni singolo abitante o “nuotatore“ di Cavallerizza. Durante le riprese sono emersi quelli che poi avrebbero potuto guidare la storia. Ogni stagione aveva un personaggio che coincideva con una serie di eventi.

La mia parte di antropologa è continuamente affascinata dall’analizzare le dinamiche sociali, sono continuamente a caccia o in ricerca. Per lavorare bene è necessario uscire dalla propria zona di comfort, per capire se esiste un altro modo di vivere al di fuori dal consumismo. “A lungo abbiamo fondato città, ora dobbiamo fondare foreste…” . Nella vita spesso pecco di ermetismo, così con i film cerco di tradurre le immagini in parole e viceversa. Se non fotografo, scrivo, e se non scrivo, filmo, e se non filmo ne scrivo, ne fotografo e allora ho la febbre. Mettersi continuamente alla prova e ricordarsi che alla fine il cinema è un lavoro di artigianato e di squadra.  Magari un giorno farò un film di finzione, e allora quando sarò più grande dovrò scegliere in maniera più precisa e pensare di più non partendo dal cuore.

Per gli aggiornamenti sulle prossime proiezioni di Across (al cinema e anche in luoghi di vacanza) si possono consultare gli account di Start sui social

 

 

1 Commento
  1. Bell’articolo e ricca la vita della signora, tuttavia non posso che dissentire quando si parla di “sacro”, in riferimento alla superstizione religiosa che di sacro non ha nulla, pur facendo una propaganda assillante fatta di parole e rituali per “sacralizzare” emerite sciocchezze dando potere ai sedicenti rappresentanti divini.
    Ciò vale per tutte, ma in particolare per la superstizione cristiana, ancora portatrice di intolleranza verso donne, gay e non credenti in tutto l’occidente.
    Ciò chiarito, la sindone è una bufala che, come accaduto con padre pio, r poi con le spoglie in silicone esposte di padre pio, sono ritenute vere dai credenti più “ingenui”, col risultato che ancora oggi fiumi di danaro vanno al Vaticano con il disonesto ed inaccettabile sistema dell’8×1000 Irpef, ed il parlamento manda in pensione i preti senza le regole italiane, con un fondo INPS CLERO, già in passivo di 2 MILIARDI da quando fu costituito. Eutanasia negata, matrimoni tra 2 cittadini dello stesso sesso negati, maternità surrogata vietata e aborto reso difficilissimo sono altre conseguenze di questa “sacralità” immeritata ed inesistente

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