Cinema

“Quel fantastico peggior anno della mia vita” e i deliri dei titolisti italiani

11 Dicembre 2015

Prendete un bel film dal piglio indipendente (nonostante sia prodotto dalla 20th Century Fox), un film che racconta dell’incapacità di relazionarsi con il prossimo degli adolescenti e della difficoltà nel confrontarsi con la malattia e la morte. Un film che, però, tratta tutti questi argomenti con una buona dose di leggerezza, con intelligenza, allegria e senza mai scadere nel patetico. Un film con protagonisti tre ragazzi, con qualche accento alla Gondry, sicuramente interessante per un certo tipo di pubblico (più giovane, ma non solo).

Prendete un film di questo tipo, uscito giusto ieri nelle sale italiane, e dategli un titolo che non c’entra assolutamente niente. Ecco a voi servito “Quel fantastico peggior anno della mia vita”, laddove il titolo originale era un molto più asciutto “Me, Earl and the dying girl”.

La frittata è fatta. I titolisti cinematografici italiani aggiungono un nuovo crimine alla loro già lunga lista. Una lista all’interno della quale spicca il celeberrimo “Se mi lasci ti cancello” con cui era stato orrendamente tradotto “Eternal Sunshine of the Spotless Mind”.

Ma per quale ragione i titolisti si arrogano il diritto di cambiare così drasticamente i titoli della produzione originale, nel chiarissimo tentativo di omologare anche le pellicole più particolari alla marmellata cinematografica che sforna mille film più o meno inutili ogni singolo anno?

La cosa, purtroppo, è sicuramente dettata da una visione tanto commerciale, quanto provinciale. Mi immagino come possa svolgersi un colloquio tra il distributore italiano e il titolista (invento eh, che non sono ferrato in materia).

– Guarda c’è questo bel film: “Me, Earl and the Dying Girl”. È un film un po’ di nicchia, non troppo, eh. Però certo non per tutti-tutti
– Beh, ma perché non lo traduciamo semplicemente: “Io, Earl e la ragazza morente”? O “moribonda”? Magari mi soffermo un po’ su quell’aggettivo lì, però senza stravolgere troppo.
– Non so, secondo me ci vuole un titolo più accattivante. Così sembra una roba indie da festival del cinema. Se poi fa flop per colpa del titolo chi lo dice ai piani alti?
– Ok, ho capito. Potremmo dargli un titolo più facile, tipo “Il peggiore anno della mia vita”.
– Ecco, già meglio. Però, sai, se magari mettiamo una cosa ancora più da commedia, meno pessimistica. Senza perdere troppo il filo eh!
– Vabbè che faccio? Non posso mica chiamarlo “Quel fantastico peggior anno della mia vita”?!
– Perfetto, andata!
– ………

Non so se la colpa sia della distribuzione o se i titolisti italiani siano dei perfidi cinici che si fanno quattro risate sul loro stesso lavoro alla maniera degli sceneggiatori de Gli Occhi del Cuore; quello che è certo è che così si rischia davvero di rovinare tutto.

Chi sarebbe interessato a un film di questo tipo, non va a vederlo, perché quel titolo lì, oggettivamente, fa scappare a gambe levate. Chi invece viene attratto da un titolo del genere, legittimamente, andrà al cinema aspettandosi una commedia da cine-panettone. E così, la delusione sarà inevitabile.

Risultato? Chi poteva dare via al passaparola (che di solito è la migliore tra le operazioni di marketing per film di questo tipo) rischia di non vedere il film; chi lo andrà a vedere pensando di trovarsi di fronte a un prodotto del tutto diverso, probabilmente, se ne farà un giudizio negativo.

La cosa sembra seguire un ragionamento spietato, del tipo: “Gli do un titolo da cine-panettone così almeno qualcuno, per sbaglio, va a vederlo”. Una logica stile “click-bait”, ma applicata all’industria cinematografica.

Una logica che guarda solo all’incasso (e ci mancherebbe), senza però prendere minimamente in considerazione quello che dovrebbe essere l’aspetto più importante per un prodotto: farlo arrivare alle persone che, effettivamente, lo cercano.

Nel resto del mondo si producono operazioni di marketing così raffinate che, sono sicuro, tra pochi anni si studieranno sui testi accademici. In Italia siamo ancora fermi al metodo più stupido e vecchio di sempre: ingannare il consumatore. Roba da quattro soldi.

@signorelli82

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