Cinema

Perchè dovreste guardare una serie tv come True Detective?

6 Marzo 2020

True detective è una di quelle serie che partono già con delle premesse che sono molto impegnative e davvero difficili da realizzare. Lo si vede già dalla sigla iniziale (e questo è un tratto comune alle tre stagioni finora uscite, tutte indipendenti tra di loro) che sono un prodotto pensato per un pubblico esigente e ben disposto a perdere parecchio tempo ad immedesimarsi in una storia fuori dall’ordinario.
Di cosa si tratta? Essenzialmente di drammi e vicende di pura ambientazione americana che, nonostante i temi trattati, hanno comunque molto in comune e sono progettate sin dall’inizio per attirare una schiera di fan molto attenti alla produzione e alla recitazione dei personaggi.

Matthew McConaughey interpreta il detective Rust Cohle nella prima stagione

Gli attori, in True Detective si calano in una parte che è del tutto nuova e soprattutto diversa rispetto a quella canonica, dei loro comuni registri, il loro scopo, qui, è colpire gli spettatori con performance che davvero poco dell’ordinario. Nella prima stagione c’è Matthew McConaughey che fa una interpretazione notevolissima uguagliando in potenza visiva quella che gli è valsa l’oscar per Dallas Buyers Club, e persino il suo partner Woody Harrelson ha una parte più drammatica e più profonda rispetto ai ruoli precedentemente interpretati.
Anche la seconda stagione offre delle belle interpretazioni, soprattutto il personaggio di Vince Vaughn è, fino alla fine, magistralmente interpretato in ogni sua sfaccettatura, nella parte di antieroe che con il passare degli episodi acquista maggiore pathos espressivo e comunicativo. Un vero boss per il piccolo schermo, il cui nome, Frank Seymon, è destinato a rimanere nell’immaginario collettivo. Stessa cosa accade con i personaggi di Rachel McAdams (ricordiamo il suo esordio in un film di Paolo Virzì), nella parte di una detective “dura e pura” e Colin Farrell che non brilla ma entusiasma in un ruolo di poliziotto corrotto e dai tanti problemi famigliari e abitudinari (l’alcol).

Bella la prima stagione, meno convincente la seconda, ma entrambe esempi di una narrativa che racconta un immaginario americano credibile e verosimile. Si passa dalla umida Louisiana alla California dei traffici suburbani, da una periferia rurale ad una in preda di traffici di droga e speculazione edilizia, da un luogo esistente ad uno immaginario ma relativamente più “possibile” del primo. Il modo in cui sono descritti è comune e riconoscibile, soprattutto nelle lunghe visioni a spazi aperti degli scenari d’ambientazione, ma anche nelle rese fotografiche meno dispersive e più dettagliate, si è di fronte a scelte ragionevoli e spesso di grande effetto, che raccontano bene un’atmosfera cupa e misteriosa.

I protagonisti della seconda stagione di True Detective (in senso orario Rachael McAdams, Taylor Kitsch, Colin Farrell, Vince Vaughn)

Una caratteristica che ritroviamo in entrambi i primi capitoli è quella di proporsi come vere e proprie opere narrative che potrebbero funzionare benissimo anche senza un supporto visivo, ma lasciate solamente su carta. Soprattutto nel caso della prima, in cui i rimbalzi temporali sono frequenti, la vena letteraria diventa sublime quando è trasportata sullo schermo, merito anche, occorre ripetersi, di due attori bravissimi senza fare un torto ai protagonisti della seconda stagione.
Ecco, la seconda, meno intuitiva e ipnotica della prima, ha una trama intricatissima che si svolge in una cittadina corrotta inventata per l’occasione ma anch’essa molto verosimile. In questo caso i detective sono tre, indagano sullo stesso caso per motivi diversi, hanno alle spalle problemi diversi e dovranno fare capo ad una trama narrativa che nonostante non abbia la filosofia particolareggiata di una Westworld poco ci manca, anzi, da un punto di vista espressivo – e reale – è persino più intricata per non dire incasinata.
Pure la prima è stata difficile da seguire (e anche per questo ovviamente bella) ma spostava su un piano più psicologico quelle che erano le prerogative delle indagini, anzi le stesse biografie dei detective diventavano motivi di disquisizione persino sui fini ultimi della vita.

Personalmente, così come gran parte del pubblico, ho preferito la prima stagione, pur confermando i buoni propositi e la scelta alternativa (più corale) della seconda. In ordine di preferenza ho amato il personaggio di McConaughey, ho sofferto con quello di McAdams e mi sono sentito dalla parte “oscura della forza” con quello di Vaughn.

Nel terzo capitolo lo sceneggiatore Nic Pizzolatto ha optato per una storia apparentemente più semplice, la cui soluzione (se poi esiste veramente) avviene 25 anni dopo l’inizio delle indagini.
Il 7 novembre 1980 in Arkansas, i fratellini Julie e Will Purcell escono in bicicletta per andare a giocare “da un amico” ma non tornano più. Ad indagare sul caso ci sono due detective: Wayne “Purple” Hays e Roland West, anche se con il passare degli episodi appare chiaro che ad avere un ruolo molto importante per le indagini è anche la moglie di Hays, Amelia, che sta svolgendo indagini parallele a quelle del marito per un libro che sta scrivendo sulla vicenda.

Questa volta ci sono 3 diverse linee temporali: la prima riprende le settimane e i mesi che hanno seguito la scomparsa dei bambini, la seconda è ambientata a 10 anni di distanza, nel 1990, mentre la terza ha luogo nel 2015 quando Hays e West ormai in pensione si ritrovano per riprendere in mano il caso più importante della loro carriera.

Tre linee temporali, 2015, 1990 e 1980 per il detective Hays

Una premessa importante da fare è che sebbene le indagini fossero dichiarate concluse sia nel 1980 che nel ’90 secondo Hays – e anche secondo West, che veste sempre il ruolo da comprimario, pur essendo titolare dell’indagine nella prima riapertura del caso – in realtà è come se la polizia avesse sempre cercato un capro espiatorio per poter mettere tutto a tacere. Il “caso” Purcell – riaperto in seguito al ritrovamento di alcune tracce della sorella Julie – però, almeno nelle seconde indagini, inizia a coinvolgere sempre più persone che gravitano in ambienti poco chiari, per poi fermarsi nuovamente una volta trovato un colpevole plausibile.

Sarà Hays, ormai malato e anziano, a riprendere in mano i fascicoli con tutti gli appunti del caso, mentre una trasmissione televisiva incentrata sul caso Purcell, a cui partecipa come ospite, gli fornisce alcuni suggerimenti importanti per poter chiudere forse definitivamente il caso.

Come nella prima stagione, oltre alla vera e propria indagine, ve ne è una secondaria di non minor importanza per lo svolgimento della trama, ed è quella che vede la crescita umana e professionale del detective Hays. Come egli stesso afferma all’inizio, la sua vita si può dividere in un prima e in un dopo “caso Purcell”. Un arco di tempo che ha coinciso con il suo matrimonio e la sua carriera da detective. L’”indagine” nella vita di Hays lascia molte porte aperte ad una autonoma interpretazione, sia per quanto riguarda il finale in sé della storia sia per quanto riguarda i rapporti con i suoi figli.

Diciamolo chiaramente, l’interpretazione di Mahershala Ali è eccezionale. Nelle tre linee temporali ha interpretato al meglio le emozioni e i turbamenti di Hays, diventando una sola cosa con il personaggio dalla gioventù sino all’età avanzata, proponendoci realmente e in modo credibile i cambiamenti anche psicologici e somatici di un personaggio davvero indimenticabile.

Wayne e Amelia nel 1980

Gli altri due personaggi principali sono interpretati da altrettanti attori degni di nota, soprattutto Carmen Ejjogo (la signora Hays), bellissima, che ha dato vita ad un personaggio profondo, riflessivo, letterario e Stephen Dorff, comprimario di Wayne e suo alter ego passionale/terreno nello svolgimento delle indagini.

La terza stagione prende il meglio delle due precedenti, soprattutto nella parte dei dialoghi non ha nulla da invidiare a quelli del detective Rust ed è meno forzata rispetto all’incontro Velcoro Bezzeridis della seconda. L’economia dei personaggi ha avuto un peso non indifferente e a risentirne è stata – in positivo – lo svolgimento della storia.

Ultima considerazione: la terza stagione ci insegna che il labor limae funziona davvero. La storia che c’è dietro la scomparsa dei fratelli Purcell è meno intricata dell’omicidio Caspare, fortunatamente, e rinuncia ad una coralità di voci comunque di primissimo livello affidandosi al lavoro superlativo di Mahershala Ali. La semplicità però non riguarda la linea temporale, qui si parla d 35 anni di ricerche per poter arrivare ad una conclusione, 35 anni in cui accade di tutto e che forse sono soltanto un buco nero nella vita di un detective “ricognitore” come Purple Hays.

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