Cinema
Parasite, una lezione coreana per il cinema italiano
Da poche settimane è uscito nelle sale italiane Parasite, film del regista sudcoreano Bong Joon-ho che pare aver messo d’accordo la critica mondiale. Capace di vincere la Palma d’Oro al Festival di Cannes, sembra essere apprezzato anche dal pubblico, tanto che alcuni critici si sono spinti a definirlo come il film dell’anno.
Probabilmente, Parasite è un prodotto di cui la maggioranza dei cinefili sentiva il bisogno perché affronta in modo diretto e scioccante uno dei più gravi problemi del nostro tempo, ovvero la disuguaglianza sociale. Il regista depura il tema dai moralismi e dall’ottica meritocratica, per cui non è chiaro come i facoltosi Park abbiano accumulato la loro ricchezza, mentre i poveri Kim sopravvivono grazie ai loro espedienti.
Se la famiglia Kim ricorda quella altrettanto sconclusionata dipinta dal giapponese Hirokazu Kore-eda nel film vincitore della Palma d’Oro l’anno scorso, la narrazione diverge. Se Kore-eda sembrava intenzionato a mostrare solo l’emarginazione dei derelitti, Bong Joon-ho sbatte il conflitto in faccia allo spettatore. Il conflitto si scatena inizialmente tra i Kim e chi può solo accontentarsi di raccogliere le briciole che cadono dalla tavola dei Park. Una lotta senza esclusione di colpi tra ultimi e gli ultimissimi, che solo nel finale coinvolgerà la ricca borghesia.
Dal mio punto di vista, il conflitto finale ricorda un altro film sudcoreano, Burning di Lee Chang-dong (altro film presentato a Cannes nel 2018), dramma che dipingeva un triangolo tra il ricco borghese, lo scrittore squattrinato e la modella emarginata. Se Lee Chang-dong utilizzava le diseguaglianze per tratteggiare un ritratto torbido della psiche umana, Bong Joon-ho pare effettuare l’operazione inversa. Parasite rimarca infatti quei tratti psicologici che sfoceranno nel conflitto finale, come l’invidia dei Kim che ritengono i Park gentili solo perché ricchi e il disprezzo dei Park per l’odore dei Kim.
La Corea del Sud è un paese cresciuto economicamente in fretta dopo la transizione democratica iniziata alla fine degli anni ’80 e complicata dall’ingombrante fratello che vive a nord. Una crescita che ha alimentato quelle diseguaglianze sociali che oggi la sua arte cinematografica affronta come ingiustizie universali, a prescindere dal contesto in cui avvengono.
Al contrario, il cinema italiano è recentemente apparso troppo occupato a narrare gli stereotipi del belpaese per raccontare storie universali. Concentrandosi sui nostri vizi, ha mostrato agli spettatori i grandi stravolgimenti globali come se fossero specificità italiane. Film intelligenti che di certo non nascondono il conflitto sociale, come Smetto quando voglio e Tutta la vita davanti, dipingono una disuguaglianza generata da un contesto brutale e gerontocratico che discrimina i giovani laureati. I protagonisti acquisiscono il favore degli spettatori non tanto perché emarginati quanto perché la loro povertà è dettata da una società che rigetta merito e intelligenza.
La verità sul cinema italiano potrebbe essere stata colta da Nanni Moretti. Nel film Mia madre, affronta la storia di una regista che prova a raccontare un conflitto sociale globale, ovvero il trasferimento della produzione all’estero da parte di una multinazionale. Dopo anni di impegno sociale, la stessa regista sembra essere a corto di idee, poco convinta da ciò che sta facendo e presa dai sensi di colpa per non assistere doverosamente la madre malata. Immagine di un cinema che troppo impegnato a interrogarsi sui propri problemi personali, si è lasciato sfuggire le dinamiche globali.
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