Cinema
Nord e Sud tra cinematografia e realtà
Quando Michelangelo Antonioni s’impose, più che sugli schermi popolari, sulle coscienze midcult, con film come “Il grido” o “L’avventura”, non sembrò vero che anche l’ Italia esprimesse finalmente una forma tutta sua, seppur domestica e ancora quasi rionale, di angoscia o di esistenzialismo. Anche noi, anche noi, eravamo moderni dunque, pativamo le pene del vivere, l’Angst, come a Uppsala e a Parigi! I tailleur di Monica Vitti e lo sguardo tarlato di angoscia di Alain Delon – e la Borsa che fa irruzione dietro le quinte con i rimandi al Denaro e alla Colpa -, davano dunque lo sfratto agli Stracci e ai Ciucci dei vari “Pane Amore e Fantasia” e a tutta la tradizione stracciacula del neorealismo prevalentemente centro-meridionale. L’approdo alla percezione visiva della modernità, non fu scevra di furbate, scorciatoie ed effetti imposti. Arbasino beccò Antonioni con le mani nella pasta di buone dosi di Pseudo-Cultura mirando e facendo fuoco su “confusione ideologica, approssimazione sociologica, pressappochismo psicologico, faciloneria linguistica, errori anche molto gravi di ambienti e di costumi (“Ritratti italiani”). Ma era una svolta modale, tematica, artistica che nell’Italia del boom chiedeva il proprio spazio, riuscendo alla fine ad imporsi ed evolvendo nelle immaginarie e molto improbabili ma seducenti quinte sceniche di “Zabriskie point” e “Blow up”.
Insomma, il “miracolo economico” – e qui si noti una metafora religiosa, “miracolo”, neanche si trattasse di madonne piangenti o pellegrine invece di quel feroce, furibondo e creativo spirito di intrapresa per nulla esistenzialista del laurà e laurà e dei danè che fan danà che esplodeva nel Triangolo industriale -, recava i frutti borghesi della “Noia” di Moravia e dei film esistenzialisti di Antonioni, oltre a quelli della commedia all’italiana: come dire siamo abbastanza benestanti per guardare ai nostri difetti atavici. E venne fuori un grandissimo momento del nostro cinema dove non fu difficile incontrare ridotto a macchietta il cumenda brianzolo spesso interpretato da Gigi Ballista. Seppur non totalmente speculare il dato filmico e il dato sociologico bruto di un Paese ancora prevalentemente agropastorale, questo cinema alla Antonioni rinnovava gli schemi e agli schermi imponeva alla fine i propri angoscianti scenari urbani (Largo Donegani ne “Il grido” o la Roma spettrale di ferragosto del “Sorpasso”). E per quel che riguarda i personaggi del paradigma esistenzialista, non più il facile calco popolare della maschera collettiva ma lo sforzo della personalità individuale, non il basso-mimetico della commedia dell’arte ma la fatica “alta” di costruirsi e averci un Io. Certo, qualche decennio prima c’era stato al Sud un Pirandello nelle cui tematiche il dato realistico e grullesco della commedia popolare (“La giara”) si avvicendava al tratteggio intimista dell’amore e morte in interni borghesi (“Il viaggio”), e in cui , detto in termini stilistici, il realismo esondava nell’espressionismo… Dai paesaggi arsi dal sole della campagna sicula, all’Io e Non Io del teatro nella vita e della vita nel teatro… Ma fu un caso artistico personale cui ancora guardiamo stupefatti.
Un osservatore come Jean- François Revel, non ancora guru liberal ma in quella fine anni’50 un giovane borsista francese in Italia (alludo al suo resoconto “Pour l’Italie”, 1977, ma 1ª ed. 1958) faceva rimarcare quell’aura di moralismo cattolico anche dentro ma soprattutto dietro, come un arrière-pensèe, di un film di rottura come “La dolce vita”, che narrava dissipazioni urbane e fallimenti esistenziali ma anche approdi a edonismi insperati tipici dell’ affluent society che, tuttavia, non potevano farla franca nella parabola narrativa della pellicola e non essere perciò non puniti con esiti catastrofici in capo a chi aveva osato allontanarsi dai sentieri della morale comune. Non c’era divertimento non consentito espressamente dal catechismo che non prevedesse una forma di espiazione. Il controllo del cattolicesimo sulle coscienze era ferreo, e il suicidio punitivo e catartico del dissipato nella dolce vita è necessario per chiudere il cerchio e ristabilire l’ordine turbato dagli eccessi.
Nella stessa cinematografia del tempo, parlo degli inizi degli anni ’60, si tentavano altre strade, grazie alla forza maieutica della grande letteratura (quanto Stendhal o Flaubert c’è nelle sceneggiature di Flaiano e in quelle di Brancati!) e si poteva pure tirare la trama delle “Tentazioni del dottor Antonio” (episodio di “Boccaccio 70”) con gli aperti rimandi e le necessarie trasposizioni implicite, dalla “Tentazione di Sant’Antonio” di Flaubert, dove a luogo dei deserti della Tebaide si carrellava su una deserta piazza italiana e la “tentazione” di Antonio Mazzuolo non erano più i demoni rupestri del santo anacoreta ma le forme curvacee di Anita Ekberg occhieggianti da un cartellone gigantesco che ti irrompeva in casa non appena aprivi la finestra. Insomma altri tentativi onorevoli di uscita dai temi , minimi e grandiosi a un tempo, imposti dal neorealismo degli straccioni.
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Ma oggi, sia nella narrativa che nella filmografia del nostro Mezzogiorno, non pare che si possa sperare in soggetti , tematiche e scelte inconografiche “altre” rispetto a quelle che si vedono circolare sugli schermi o nelle pagine dei romanzi. Sognare altri temi, plot e immagini è come aspirare alla rappresentanza politica senza essere parenti di vittime della mafia da un lato e consigliori e occulti compari del crimine dall’altra. Divaricazioni sempre estreme. Non pare che, anche sullo schermo televisivo, si possa uscire da copioni avviliti in narrazioni permanenti di guardie e ladri in perenne reciproco inseguimento di cui grondano tutti i santi giorni i telegiornali per ben metà e oltre del notiziario: una cosa tutta italiana, basta dare uno sguardo alle tivù europee…
Fuorché nell ’isola felice della Basilicata di Rocco Papaleo, e ancor più nel favolismo narrativo di Gaetano Cappelli i quali proprio a partire da temi grotteschi e periferici si sottraggono, con intelligenza e ironia, alla grande deflagrazione del Sud – proprio perché di altro Sud probabilmente si tratta – pare che si possa fuggire e sfuggire dallo spappolamento, dallo sgarrupamento e dalle devastazioni, anche visive, di Scampia o dello Zen… E va bene che gli Dei ci danno le sciagure perché i poeti abbiano di che cantare ma siamo ancora lì, al servaggio stretto dei temi e delle scelte narrative imposte dal mero dato reale. Vittime del ristagno storico e della putrefazione del sociale che limita e vincola le scelte. E neanche una forma visiva “altra”, ironica e intelligente – una mera scappatoia, lo so, rispetto al dato angosciante del reale incombente – pare si possa approntare utilizzando i codici retorici e visivi, ad esempio, delle seduzioni e degli abbandoni di una Sicilia vista con gli occhi partecipi e umorali di un Germi. C’è stato un cinema meno coartato dalla cronaca che ha saputo vedere e intravedere. Né mafia e camorre né morti ammazzati insomma, ma Mimì metallurgici, basilichi, eros sottocutaneo e tanta godibile ironia come nella tradizione visiva del grottesco bisbetico di una Lina Wertmüller. C’è stato un altro Sud elegiaco, erotico, o indagato civilmente da Damiani e Rosi sulle tracce di Sciascia e di palpitanti inchieste giornalistiche su fatti epocali di cronaca, anche sontuosamente regressivo che seppe catturare per un certo periodo gli schemi e gli schermi.
«Il popolo […] è creazione teorico-politica della borghesia: ma anche sul piano oggettivo esso non fa che riflettere gli orientamenti, i gusti, gli stimoli etici e spirituali, della classe dominante. Il popolo non ha insomma ideologie né orizzonti di vita, all’infuori di quelli che la classe borghese gli suggerisce». Così Asor Rosa in “Scrittori e popolo” a proposito dello scrittore feuilletoniste napoletano Francesco Mastriani (influenzò molto la Serao). Ma che topica questa di Asor Rosa! Ma quale film ha visto? Al Sud è accaduto esattamente il contrario. È il popolo a stabilire le norme (linguistiche, gastronomiche, etiche, e talora anche economiche) della società meridionale tutta. Basta aver visto un semplice film come “L’oro di Napoli” in cui l’aristocratico De Sica prima di ritirarsi a casa gioca a carte (perdendo e incazzandosi) con il figlio della portinaia in un tipico testa-coda sociale dove è il popolo a imporre le proprie volizioni. A Napoli e in tutto il Sud fino agli anni Sessanta del secolo scorso popolo e upper class, nobili e ignobili vivevano nello stesso palazzo! Altrove, a Milano per esempio, la borghesia già a fine Ottocento si distacca anche topograficamente dal popolo, il vecchio Verziere viene abbattuto e la classe borghese, questa sì egemone, impone il proprio “tuono” direbbe Leopardi, all’intera società cittadina. Dalla finanza al giornalismo. Al Sud invece l’ideologia delle plebi urbane, il Lumpenproletariat (ché questo è il popolo, specie nelle conurbazioni delle grandi città meridionali) sotto forma di “cultura materiale” è invece egemone sulla classe borghese, la quale non esiste in sé e per sé ossia come ceto dotato di autocoscienza. Si veda il fenomeno del dialetto, perlopiù ripudiato dalle classi dirigenti (anche perché formate da soggetti provenienti dall’estero o da altre regioni) nel Nord urbano (il Veneto fa discorso a sé) e adottato invece al Sud con trasporto da notai, giudici, avvocati, professionisti in genere e i soliti possidenti.. (Questi ultimi particolarmente privi di ogni ideologia weberiana del profitto, ma posseduti da quella aristocratica della rendita: sono degli aristocratici nella testa senza titoli nobiliari). Ci fosse stata al Sud una classe borghese staccata dal popolo mentalmente ed intellettualmente, ed egemone quindi, non staremmo qui ancora a discutere perché il Sud è rimasto indietro. È stata la classe borghese, come la definisce Emanuele Felice di tipo “estrattiva”, sfruttatrice sì, ma per nulla egemone. Non era interessata a una modernizzazione attiva e a suggerire pertanto orientamenti, gusti, stimoli etici.
Oggi, e non poteva essere altrimenti, il sottoproletariato urbano che, c’è poco da fare e da dire, è lo strato sociale che tuttora impone parlate, cibi, stili di vita, pensieri, spari e sangue, voti ed ex voto a tutto un contesto sociale e antropologico, è alla fine il ceto che si impone visivamente e tematicamente nelle pellicole come nelle serie televisive di successo. E ciò sia che venga “trattato” nelle forme glamour e à la Broadway del rap di Tano di Roberta Torre, sia che patisca una sorta di estetismo erotico alla Aurelio Grimaldi (o allo chic e choc di Dolce & Gabbana che sono il Von Gloden dei giorni nostri), sia infine che venga ritratto nelle forme secche, scabre e rivoltanti del cinismo documentarista di Ciprì e Maresco ( il cui ultimo film “È stato il figlio” è l’approdo sintetico, la crasi, tra il voltaggio realistico “serio” di un attento osservatore come Roberto Alajmo e le forme spastiche del cinico tivù, ora cinico-cinema di Daniele Ciprì). Stesso sottoproletariato confinante con piccola borghesia che viene, finalmente, sferzato pedagogicamente da Ficarra & Picone nel piccolo e assennato apologo “L’ora legale”.
E d’altronde: non puoi inventarti Uppsala a Partinico, né quinte esistenziali al quartiere Librino di Catania. E questo è vero. Ma il sospetto di un saputo parassitismo letterario e cinematografico da parte dei cineasti nella “selezione epica” dei temi e degli scenari; la “tranche de vie” che non ha ancora finito di palpitare nella realtà e già sussunta e “arruolata” nel film come nelle Gomorre televisive; il passaggio dall’immediato al mediato senza decantazione, “live”, sperando che neanche un “fotogramma” del reale si sprechi nella ritraente carrellata cinematografica, e tutto il mondo ritratto riceva un flash al fulmicotone che fissi nel frame della pellicola l’iridescente e dolorante modalità del visibile di morti sparati. Con l’enzima di piacere estetico secreto pensando a “quelli” di Venezia e procurato grazie alla, e ai danni della, sofferente realtà ritratta come fa Rosi in “Fuocoammare” in cui il dramma malthusiano di un continente che si riversa su un’isoletta è alternato a scialbe scene di vita quotidiana ritratta coi modi sfranti dell’école du regard (spreco di pellicola e minuti interminabili dedicati al rifacimento del letto da parte di una signuruzza isolana mentre i barconi laggiù si rovesciano) … tutto ciò dà l’idea di una disperante e permanente forma immobile dell’essere, senza “altri” possibili sbocchi narrativi e visivi, nel reale e nell’artistico, nell’immediato e nel mediato. Una permanente camera con vista spalancata su inferni danteschi che ci condanna a un concentrazionario sequestro emotivo, impossibilitati a fiatare e a sfiatare.
Per altri aspetti più biografici e personali è questa una sorta di punizione aggiuntiva inflitta a chi è nato sotto il Volturno. Non da adesso la letteratura alligna dove ci sono “problemi”, vedi la Russia nell’800 e l’America latina nel ‘900, ma noi, noi vorremmo ancora e semplicemente vivere abbordando finalmente la modernità, stanchi di essere racchiusi in uno zoo di vetro narrativo e filmico, in una delibazione estetica altrui in cui il sottosviluppo o il mancato aggancio con la modernità sono esaltati negli stilemi di un equivoco prestigio regressivo.
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