Cinema

“Napoli velata”, il tramonto del logos occidentale

2 Gennaio 2018

Napoli velata si legge dalla fine, dall’immagine del Cristo velato di Sanmartino, una scultura dalle forme plastiche in cui il velo non fa che accentuare la morbidezza della carne, marcando l’umanità piuttosto che la divinità di Cristo; quel velo, insomma, rivela, fa parlare un aspetto che la Chiesa ha sempre sottovalutato: Cristo è stato uomo, ha avuto un corpo e questo avrà pure determinato delle conseguenze umane, molto umane. Sanmartino ha rivelato un tabù.

Come in Cristo convivono due nature così è nell’essere umano: Ozpetek ci ricorda che l’uomo è bidimensionale. C’è il logos, la ragione, quella che espunge dalla quotidianità tutto ciò che è inspiegabile, rifiuta il dubbio, si spinge oltre i confini dell’inconoscibile e sfida l’ignoto perché non ne resti più traccia e con fame prometeica e scientista mira al controllo totale della realtà. E poi c’è il mistero di fronte al quale bisogna solo tacere;  la scienza, la ragione non hanno risposte, l’irrazionale è un terreno insondabile e prepotente, perché, nonostante l’invadenza del logos, il mistero sopravvive.

Nel film di Ozpetek c’è un simbolo che ritorna, un occhio azzurro, un amuleto che la protagonista riceve in dono e come tutti gli occhi le dovrebbe servire per vederci meglio, per fare chiarezza nella sua vita convulsa e confusa. E invece quest’occhio sarà la prova del fatto che chiarezza non c’è, la vita è mistero, nell’esistenza domina il caos e il confine tra realtà e illusione è molto labile.

La struttura del film è quella di uno psico-thriller, ma alla fine poco importa la soluzione del caso che ha al centro della storia un efferato omicidio in cui la donna impersonata da Giovanna Mezzogiorno si trova coinvolta. Non c’è una prova schiacciante che metta fine al caso: c’è la verità della polizia – quella che è sufficientemente certa e che lega la vittima a un traffico di reperti e di opere d’arte –  ci sono i sospetti della protagonista, quelli che, però, senza prove – come lei stessa nota – sono solo leggenda.

Fa da eco all’intero film una frase pronunciata dal saggio Pasquale – un personaggio secondario  ma non troppo – mentre cerca di mettere la protagonista e lo spettatore sulle tracce di una verità possibile: la verità è figlia del tempo. Si tratta di una frase latina di Aulo Gellio (veritas filia temporis): certo la verità emerge con il tempo, si fa negli anni, cambia con il mutare delle stagioni; ma forse gli antichi volevano dire di più: non ci sono verità, certezze assolute e, dunque, il mondo danza sui piedi del caos, spiegherà poi Nietzsche.

Sullo sfondo di una Napoli in cui convivono indagini poliziesche e misteri profondi, l’unica certezza è che il razionalismo investigativo dell’uomo occidentale, che come l’Ulisse dantesco ha sfidato ogni limite, è destinato allo scacco.

 

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