Cinema
Ne “L’ultima notte d’amore” c’è Favino e tanta Milano, coi suoi nuovi padroni
L’ultima notte d’amore è stato proiettato ieri, in anteprima assoluta, al Cinema Anteo Citylife, a Milano. Il film di Andrea Di Stefano merita di essere visto per molte ragioni. Perché è un film italiano davvero ambizioso, nell’intreccio, nelle scelte, nel pensarsi proiettato anche fuori dai nostri confini. Perché Pierfrancesco Favino è, meritatamente, l’attore italiano più acclamato e riconosciuto di questi decenni. E perché – vengo a ciò di cui posso parlare senza troppa incompetenza – mette al centro, attorno e in filigrana dell’intreccio Milano. Le riconosce un ruolo di protagonista e non di solo contesto. Racconta, attraverso e oltre l’intreccio poliziesco del film, una città e le sue contraddizioni, uno spicchio del nostro mondo. Non è un film “su” Milano, questo, ma è un film che riporta questa città al centro di una scena, con ambizione e libertà, e la libera dai dibattiti asfittici che a volte animiamo. Una poliziotta cita Expo, per parlare di un carabiniere che fu indagato per malversazioni legate al grande evento che ha simbolicamente cambiato il destino della città. Un faccendiere calabrese vende orologi da 50 mila a un calciatore del Milan, sbucando dai locali di Via Victor Pisani, mentre il protagonista dichiara di tifare Inter. Piazza Duomo, il Bosco Verticale, la Galleria, i binari della ferrovia, il cielo che appare e scompare. Milano fa capolino e si nasconde nei dialoghi, come luogo in cui si fondono ed emergono impegni, ambizioni, capacità, etnie, lingue e malevolenze che è sempre stata.
Chi sa fare recensioni, chi le fa per lavoro, racconta film e libri senza togliere al pubblico il gusto di guardarli. Non è il caso di chi scrive. Tanto più che qui siamo davanti a due ore – tese, intense, dolorose – di giallo classico, ma scarteggiato e poi riverniciato. Pescando in quel che si è letto e visto, riaffiorano ricordi antichi di Hitchcock e delle sue claustrofobie, ma anche di De Palma e della voglia di farci guardare due soggettive – almeno – in un film solo. Tanto cinema di genere francese. E poi, certo, Scerbanenco, e certi civici di Viale Tunisia, e i poliziotteschi degli anni 70 che non a caso Favino ha citato, in sala, prima che iniziasse la proiezione. Il poliziotto che lui interpreta, Franco Amore, una carriera strozzata dall’amore per una donna che ha i parenti sbagliati, è uno perbene, ma debole. Come capita ai deboli fa qualche cazzata. Più che altro per amore, anche a un metro dalla pensione. La storia inizia da qui, e vi consiglio di gustarvela al cinema, perché è il posto in cui farlo.
Proprio al cinema, infatti, va vista la scena iniziale. Un lungo volo su una d’inizio estate a Milano, una città ripartita, che pulsa come batte il cuore di un atleta al massimo sforzo negli ultimi chilometri di una maratona. O quello di due amanti nel pieno dell’amplesso. O quello di un ladro, o di una guarda, all’apice dell’inseguimento. È il giugno del 2022, scopriamo a un certo punto, il Covid che aveva osato fermare perfino chi fermarsi non voleva non c’è già più. In compenso ci sono i cinesi, che sono i nuovi padroni della città. Gli affari li comandano loro. Perfino la Ndrangheta, per raschiare qualche spiccio, deve mettersi in coda per salire agli ultimi piani dei grattacieli, e guardare la città dall’altro, ma da casa d’altri. Perfino un bravo poliziotto, a un metro dalla pensione, se vuole pensare che non è tutto finito, che c’è vita dopo l’ultima notte di lavoro, deve considerare di mettere a disposizione dei nuovi capi il suo lavoro, la sua reputazione. Un po’ come il vecchio Clint Eastwood, in The Mule, appena pochi anni fa, riconosceva che il mito americano, per sopravvivere, si svende nella quarta età alle mafie latine.
E forse qui sta un tracciato profondo di questo film. Perché ci dice che questa città, al di là dei doverosi dibattiti sul modello di sviluppo che vuole e può darsi, al di là del futuro dello stadio e di quello dell’aria sempre peggiore che respira, deve ricordare quel che è: la piccola parte di un grande ingranaggio. Nel quale, altri, altrove, hanno le leve per decidere. Parlano altre lingue, e hanno in mano la città. Il poliziotto Franco Amore, proprio a un metro dalla meta, se n’è dimenticato. E mal gliene incolse.
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