Cinema
L’imbarazzante felicità di Philip Seymour Hoffman
È una felicità timida e docile quella che compare sul volto di Philip Seymour Hoffman e di Mimi O’Donnell. Philip e Mimi si sono appena conosciuti e lo stupore tratteggia i loro volti con un’ingenua felicità che ha per loro come per chi li guarda dell’incredibile: una sostanza amorosa leggera che pure permane fino ad impressionare l’immagine con una densità eterna capace di abbattere ogni limite.
È una foto qualunque, questa scattata nel 1999, in cui i due sembrano sorpresi di questa felicità stupida e improvvisa capitata senza preavviso, un vento improvviso, un inciampo divertente che un po’ stupisce con quella fragranza adolescenziale vissuta e rivissuta fino allo stremo, ma anche con quella gracile consapevolezza che il passare del tempo forma sulle pieghe del viso delle donne e degli uomini.
Philip Seymour Hoffman nel 1999 ha 32 anni e per certi versi è già un attore di culto grazie a Boogie Nights girato due anni prima e diretto da Paul Thomas Anderson suo vero mentore e scopritore. Ma il bello deve ancora venire. Il talento inquieto e grandissimo di Philip sarà infatti cosa pubblica sei anni dopo, nel 2005 con il premio Oscar per Capote in cui darà vita ad un’incredibile e vibrante Truman Capote.
La carriera di Philip è sempre stata virata da un afflato esistenziale d’inquietudine e irrisolutezza, una tensione dura, una lotta perenne che ha fatto dell’attore di Fairport una vera e propria icona oltre che punto di riferimento di recitazione. L’unico della sua generazione in grado veramente di sfidare i mostri sacri cresciuti negli anni Settanta della New Hollywood.
Questa immagine svela l’intima quotidianità, entra tra le cose comuni e gli oggetti banali e ci dice quale bellezza imprevista è la limpidezza di uno sguardo dimentico del dolore interiore, uno sguardo distratto dalla semplicità e finalmente privo di ogni complessità angosciante e straziante.
I vestiti sono quelli che sono capitati, e mentre lei tiene tra le mani il grosso bicchiere di vetro avvolto da un fazzoletto di carta, lui non declina lo sguardo da un piccolo fremito di gioia che qui vale come un brivido e allarga le sue braccia: con una la tiene con sé mentre con l’altra sul ginocchio quasi si spinge a lei con delicatezza.
Questa foto non mostra il tempo meraviglioso e felice della gioia o la sua esplosione estatica e sognante, ma il sospiro dopo la paura, l’infinito desiderio per i giorni felici a venire, la banalità del bene che si oppone a quella del male senza astuzia e senza difese.
Una foto di famiglia come ce ne stanno tante nella vita di ognuno, foto di un passato desiderato: sono quelle dei nonni, di chi è venuto prima e prima ci ha creduto. Nulla si spezza e in fondo nulla finisce mai per davvero, ma ci sono dei limiti oltre i quali non esiste nemmeno la curiosità.
La morte è il limite ultimo di tutte le cose, scrive Orazio e Philip Seymour Hoffman è morto il 2 febbraio del 2014: aveva quarantasei anni e molti film fatti alle spalle e tre figli nati e la sua storia con Mimi O’Donnell finita un anno prima. Il limite è questo, altro non c’è, né di possibile né di desiderabile.
Altra cosa è invece quello che resta che nel caso di Philip Seymour Hoffman non ha limiti che nell’occhio degli spettatori, come in fondo questa foto comune, scattata in un giorno qualsiasi che fu felice e imperdibile. In questa foto c’è la storia di un giorno qualsiasi come di qualsiasi altra persona possibile. Questa è la foto di un attore innamorato.
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