Cinema

Le emozioni degli anni più belli

16 Febbraio 2020

Quali sono gli anni più belli della nostra vita? Tutti ci siamo fatti questa domanda a un certo punto, e per un naturale meccanismo del tempo e della memoria la risposta è sempre quella nostalgica che porta all’adolescenza, alla giovinezza spensierata che fugge e ai ricordi che non passano mai.

Su questa domanda Gabriele Muccino, il regista più generazionale del cinema italiano, ha costruito un film: forse il suo migliore, il coronamento di una ideale trilogia che racchiude il racconto passionale degli anni liceali di “Come te nessuno mai” (vent’anni già sono passati da allora), il romanzo dolceamaro dei trentenni Peter Pan de “L’ultimo bacio”, fino all’ultima opera, oggi nelle sale, “Gli anni più belli”. Che non solo chiude il cerchio, portando in scena gli stessi liceali Peter Pan ormai diventati cinquantenni, ma riprende il filo da ben prima di dove Muccino l’aveva lasciato, cioè proprio dall’anno zero della scuola, dei sogni e degli amori da ragazzini.

La prima cosa bella di questo film è infatti l’aspirazione a raccontare non soltanto una singola fase della vita (che poi è quasi sempre quella in cui si trova il regista) ma la vita intera, e insieme la storia italiana degli ultimi quarant’anni. E così troviamo tre amici e una ragazza crescere insieme attraverso tutti i passaggi segnanti, la prima macchina, il primo bacio, la prima volta, la laurea, il primo contratto a tempo indeterminato – che naturalmente arriva “alla buon’ora”, come scherzano i protagonisti stessi.

Parallelamente arrivano presto le delusioni, i fallimenti familiari e i tragici colpi di fortuna, il sudore non ripagato e i tradimenti. Micaela Ramazzotti – quel personaggio fragile, indeciso e sempre sull’orlo della crisi che le riesce così bene di interpretare – farà innamorare e litigare quasi tutti. Dei tre amici, quello interpretato da Pierfrancesco Favino diverrà un avvocato di grido partendo dal seminterrato dove viveva col padre manesco; Kim Rossi Stuart, l’insegnante di lettere sensibile e idealista, dovrà attendere le “sliding doors” per trovare la felicità; Claudio Santamaria tornerà fallito a casa dei suoi, ma per tutti c’è una seconda possibilità.

Il cinema di Muccino è vitalista, a tratti può sembrare eccessivo e melodrammatico, e così le interpretazioni, che rispondono perfettamente alla richiesta di caricare emotivamente la narrazione. Ma mentre in altre opere del regista romano, come “A casa tutti bene”, la forte caratterizzazione dei personaggi sfociava spesso nella caricatura, ne “Gli anni più belli” l’effetto che ne scaturisce è emozione pura, sentimento che ci sfiora o tocca proprio nel profondo. Perché il segreto della riuscita di questo film è rappresentare una storia in cui tutti possano, chi più chi meno, riconoscersi. E non tanto perché “siamo italiani” e questa è una storia italiana, non solo perché si vedono ben scanditi alcuni eventi storici, ma perché è il racconto intimo di vite normali, tra alti e bassi e sconfitte e rivincite.

Il cinema italiano è da sempre incline a operazioni che intrecciano il vissuto privato e la vita pubblica del nostro Paese: da Ettore Scola al Marco Tullio Giordana de “La meglio gioventù”, da “Novecento” di Bertolucci fino al più recente “Mio fratello è figlio unico”. Quasi sempre il taglio è spiccatamente politico, qui invece la Storia sullo sfondo interviene quasi per nulla, o per caso, nelle vite dei personaggi.

Muccino cerca “soltanto” di raccontare, e trasmettere, le emozioni che rimangono quando tutto il resto non c’è più. Lo fa con un registro popolare attingendo a Claudio Baglioni, tenendosi alla larga dall’Impegno con la i maiuscola, e mettendoci dentro tutto il possibile e anche di più (fosse per lui, ci piace pensare, avrebbe fatto un film di tre ore e passa, mai stanco di ricostruire affreschi di vita, quando invece si è dovuto accontentare di poco più di due ore). E, per una volta, non è tutto questo un male.

Così, la domanda in apparenza scontata su quali siano gli anni più belli rimane senza una chiara risposta, all’uscita dalla sala. C’è sì la nostalgia per la giovinezza, ci mancherebbe. C’è sì il fallimento di una generazione, anche se il giudizio sulle colpe storiche è molto annacquato e la discussione appena abbozzata sul tema dei tre amici a tavola si chiude con un brindisi a Madre Teresa di Calcutta (“le cicatrici sono il segno che è stata dura, il sorriso è il segno che ce l’abbiamo fatta”). Ma ancora di più emerge la sete di vita di Gabriele Muccino: di tutta la vita, non soltanto di una età. E comunque, se si festeggiano col sorriso e con gli amici cinquanta e più capodanni, viene quasi il dubbio che gli anni più belli non siano questi, oggi.

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