Cinema

L’abbaglio, ovvero la rivoluzione agraria mancata?

Il film “L’abbaglio” indaga l’origine compromissoria del Processo Unitario e rilegge una pagina del nostro Risorgimento.

20 Gennaio 2025

L’abbaglio probabilmente è due film in uno, ovvero il risultato di un compromesso narrativo. Da un lato, indaga il compromesso  questo sì storico del Processo Unitario, con la ricostruzione delle prime fasi dell’impresa dei Mille e con l’implicazione sottotraccia del risentimento circa le conclusioni di questo tratto del Risorgimento come «rivoluzione agraria mancata» — ovvero la presunta promessa tradita di Garibaldi. Da qui l’abbaglio?

Nel film affiora nei primi discorsi di Garibaldi a Salemi un accenno — di cui sconosco la base documentale ma mi fido degli sceneggiatori — all’esproprio del latifondo e alla distribuzione delle terre. Dichiarazione che esalta i contadini (i “berretti”) che accorrono a fianco dei garibaldini ma mette in allarme i ceti alti (i “cappelli”) e i loro “uomini d’onore”. Ciò spiegherebbe il successo della spedizione dei Mille, che non fu un’iniziativa politico-militare originale in quantoché non faceva altro che riprendere lo schema fino ad allora fallito delle spedizioni nel Sud di un drappello di uomini armati nell’intento di coinvolgere la popolazione nell’insurrezione, come quelle dei Fratelli Bandiera nel ’44 e di Pisacane nel ’57 spente nel sangue.
Si prospetterebbe così una rivoluzione sociale da integrare in quelle esigenze dinastiche dell’espansione territoriale dei Savoia che chiamiamo anche «Unità d’Italia», intento che era nella coscienza di Garibaldi già prima della partenza con la nota formula «Italia e Vittorio Emanuele» .

Qui il film ha i suoi bei momenti epici — molto costosi suppongo sotto il profilo della produzione — della ricostruzione dell’evento storico in sé: dall’iniziale reclutamento dei garibaldini per mano del colonnello Vincenzo Giordano Orsini (interpretato da Toni Servillo) che — leggo nel mio Bianciardi Da Quarto a Torino preso dallo scaffale di casa — «dopo la rivoluzione del ’49 aveva fatto carriera militare, ed era salito al grado di colonnello d’artiglieria, ma nell’esercito turco», quindi l’allestimento dei due piroscafi Piemonte e Lombardo,  e a seguire, le scene dello sbarco a Marsala, la ripresa delle prime battaglie (Calatafimi), la raffigurazione cronachistica degli eventi bellici garibaldini avendo come paragone implicito, mi è parso, il tratto visivo-pittorico del Gattopardo di Visconti.

Dall’altro lato si allinea la vicenda novellistica maupassantiana (già ripresa ne La grande guerra del ’59 di Monicelli), dei due compari, grulleschi e disinteressati alla guerra ufficiale e contingente in quanto alle prese con quella, eterna, propria, della mera sussistenza. I due sublimi giufà (Ficarra &Picone) disertano ben presto. Dopo un interludio in un convento alla fine si riaggregano alla colonna Orsini mandata da Garibaldi (Tommaso Ragno) in diversione tattica nell’entroterra per sviare i borbonici guidati da von Mechel («svizzero, mediocre, tracotante, ma tenace e onesto» secondo Bianciardi). Lo scopo è infatti di depistare alcuni drappelli delle truppe borboniche mentre Garibaldi progetta di prendere Palermo, come avvenne storicamente ma non raccontato dal film. Von Mechel — interpretato splendidamente da Pascal Greggory — è intenzionato, come aveva fatto con la cittadina di Corleone, a mettere a ferro e a fuoco anche Sambuca dove è asserragliata la colonna Orsini. Ma qui, nella pubblica piazza, è gabbato, con una alzata di ingegno che non rivelo dai due compari, che riscattano così la loro ignavia con un gesto realmente rischioso di eroismo, ma secondo il loro modo: barando.

I due fili narrativi, dicevo, corrono paralleli fino a incrociarsi nella fase del sottofinale — quella della vicenda della colonna Orsini appunto — cui segue il finale vero e proprio del classico “vent’anni dopo” in cui Orsini ricerca e incontra i due bari al lavoro in un bordello e gioca con essi un’ultima partita non più truccata.

Fin qui il plot. Ora, so che il semiologo Julien Greimas ha condotto proprio sulla novella I due amici di Maupassant una stretta analisi semiotica. (Maupassant: la sémiotique du texte, exercices pratiques (1976)). Sulla sua scia Giulia Bassi in un suo studio tanto ardito quanto raffinato sul PCI (Non è solo questione di classe, Viella 2019), fa notare come il ricorso all’uso strategico di tecniche discorsive, elaborate da Greimas, come l’embrayage (retorica inclusiva e personale: dire “noi”) o il débrayage (esclusione impersonale, dire “loro”) può svelare, semplifico alla grossa, i meccanismi retorici alla base di una narrazione pubblica verso i soggetti politici di riferimento: le masse, il popolo, gli elettori, gli iscritti a un partito. Qui c’è da chiedersi se Garibaldi abbia fatto ricorso o meno all’embrayage nei confronti delle masse contadine, se le ha ossia ricomprese nel suo discorso politico-militare. I Calendari del popolo del dopoguerra stampati dal PCI, scrive la Bassi, esaltavano l’impresa dei Mille e la figura di Garibaldi come genuino eroe popolare. Ma la risposta è no per Bianciardi, il quale per primo nel suo Da Quarto a Torino del 1960 inaugura il fronte revisionista del Risorgimento — cui seguirà nel 1971 sulla sua scia il film Bronte: cronaca di un massacro di Florestano Vancini. Bianciardi afferma, a ragione, che Garibaldi non si pose per nulla la questione sociale. Su questo sentiero critico si instrada L’abbaglio. Quando esplosero quei fatti — i contadini che si ribellano e occupano le terre — Garibaldi non esitò a inviare Bixio a reprimere nel sangue la “rivolta” come se fosse una truppa d’occupazione e non di liberazione. (Il fatto è narrato anche da Verga nella novella Libertà). La sua fu nella sostanza una conquista regia avrebbe detto Guido Dorso camuffata da rivoluzione popolare.
Se così stanno i fatti storici, e così stanno, Orsini avrebbe dovuto in verità raggiungere a Caprera proprio Garibaldi, il vero responsabile dell’abbaglio, e chiedergliene conto, non rincorrere i due poveri giufà, che erano stati coerenti con la propria strategia di sopravvivenza dopotutto. Risiede qui una smagliatura non marginale della sceneggiatura. Tuttavia la pellicola ha il merito di rivisitare nei modi narrativo-filmici tutto sommato attraenti una pagina di storia da oltre cinquant’anni non più sfogliata.

P.S. Nota storica. Negli anni ’50 del ‘900 intercorse un dibattito storico di un certo rilievo sul nostro Risorgimento. Lo storico di orientamento liberale, siciliano di Giarre e biografo di Cavour, Rosario Romeo, contestò con un suo saggio Risorgimento e capitalismo (1959)  l’interpretazione di Gramsci del processo unitario come “rivoluzione agraria mancata”, tesi che sta dietro, suppongo, alla pellicola L’abbaglio. Romeo, facendo ricorso paradossalmente a una categoria marxiana, sostenne che l’espropriazione del latifondo avrebbe impedito di fatto l’ accumulazione originaria del capitale e dunque quelle risorse necessarie allo sviluppo industriale del Paese che avvenne di lì a poco. Il Risorgimento fu insomma un compromesso storico necessario tra le due classi dirigenti, del Sud, i latifondisti, e del Nord, gli industriali, ai fini dello sviluppo complessivo del Paese. Il dibattito ebbe una risonanza internazionale allorché vi intervenne anche l’economista russo naturalizzato americano Alexander Gherschenkron il quale, già per conto suo aveva contestato la fecondità del concetto marxiano di accumulazione originaria del capitale, e obiettò a Romeo che nell’ambito così arretrato come quello italiano non si potesse stabilire una stringente successione cronologica tra il momento dell’accumulazione del capitale e quello del take off capitalistico, confermando i limiti e le contraddizioni della nostra vicenda politico-economica italiana.

 

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