Cinema

Le verità, o un film sulla menzogna

3 Novembre 2019

“[…] se tu ti proponessi di recitare te” – CCCP

 

Le verità, di Kore’eda Hirokazu. Parliamo del film che ha inaugurato la mostra del cinema di Venezia di quest’anno e che ormai è già fuori dalle sale. Un lavoro dal titolo prosaico e ardito, dove i più sottili possono trovare un segno dell’ambiguità della pellicola che nella versione italiana abbandona il singolare del francese “La vérité”. Non si specula su un cavillo grammaticale del titolo, lo spostamento di senso è notevole dal momento che in tutta la storia l’unica verità sostenuta (tra le verità individuali) è che ogni individuo e ogni relazione umana oscillano tra la tensione al vero (sentimentale) e il suo fallimento, la sua naturale rivelazione in menzogna, in questo caso connaturata al talento della recitazione. Tra le prime questioni implicite ne “Le verità” sta proprio la finzione o almeno l’improbabile sincerità nel rapporto tra una madre e la propria figlia. Il meccanismo narrativo tende poi, sottilmente, ad allargare lo sguardo sulle relazioni affettive di un’attrice nel corso della propria vita. Il dramma, se c’è, è tutto qui, nell’intreccio tra vita e cinema, nella consecutività tra talento a recitare e vocazione a mentire, nel conflitto tra le tante verità (versioni) personali e la tensione alla verità assoluta.

Così la sempre-bionda quasi ottuagenaria protagonista Cathrine Deneuve sembra recitare sé stessa con una inconsapevole malafede che dischiude menzogne manifeste: questa la verità dell’attore, la sua brillante solitudine. La matronale, imperiosa diva del cinema, nelle nostalgie di una lattea bella di giorno, recita in modo (sapientemente) poco credibile il ruolo di madre corrucciata, nonna affettuosa stregonesca, moglie dispotica, padrona di casa inflessibile e soprattutto di consumata attrice caparbiamente in competizione col mondo del cinema e dunque con sé stessa. Regina del grande schermo e delle sale della propria villa, nelle parole di Fabienne la protagonista, finisce per dirci che se il cinema è stato tutta la sua vita come è stato nelle diverse stagioni della Deneuve, e la sua vita (nel film) è quella di una star senza scrupoli quasi anafettiva, allora non c’è che un solitario rendiconto di menzogne alla fine delle riprese (della vita stessa), per quanto circondati ancora dal residuo tepore della famiglia in visita dagli Stati Uniti. Quella che vediamo nella scena finale: un padre, una madre con figlia e nonna che accolgono con incolore affetto il proprio destino di solitudini imparentate. Eppure, nonostante queste azzardate premesse, il film vale diverse emozioni, non rischia il paternalismo né il dramma a tinte tragiche; scorre lieve e autorevole nel confronto tra due notevoli attrici, la Deneuve-madre e madrina (in senso professionale) di una Juliette Binoche-figlia e sua reale estimatrice.

Fabienne viene interpretata in maniera così composta e sinistra da suggerire qualche attesa psico-thriller in quella che si delinea poi una commedia sentimentale nippo-francese alternata a dramma familiare senza che né la commedia e né il dramma si impongano l’una sull’altro. Una narrazione misurata, elegante, forse troppo freddamente curata nello stile che per antonomasia si attribuisce al carattere giapponese; non accade nulla di così inquietante o di troppo drammatico; la Deneuve porta a termine con stile la prova attoriale di un’affermata attrice al lavoro, che si ritrova davanti alla figlia, trascinando quest’ultima assieme a figlioletta e marito dentro un altro set che ci riporta davanti ad un’altra madre, questa volta nello spazio celeste, in una stiracchiata storia fantastica di un giovane regista che vuole una donna in orbita tra le stelle, senza età, senza vecchiaia, astro tra gli astri. L’espediente vale a spiegare come nel racconto spaziale la madre (bellissima alter ego di un’attrice antagonista di Fabienne sepolta nel passato) appaia più giovane della figlia, la prima preservata dall’assenza di atmosfera. Ma questo è un altro tema implicito del film, la decadenza fisica dell’attrice davanti all’eternità del cinema che attraverso sempre nuovi divi si riproduce, talvolta replicandoli.

Molti meglio del sottoscritto hanno saputo (e sapranno) dar rilievo alla lunga carriera di Cathrine Deneuve, capace di eguagliare le prove più longeve dei colleghi uomini a detta dei critici mediamente più scritturati una volta entrati nella quarta età. Questo, si dice, anche per la matura fascinazione dell’uomo in opposizione all’oblio subito da bellissime dive davanti al loro sfiorimento. Non si esce con nessuna verità da questo confronto di genere, specie davanti alla maestosa prova della Deneuve in questo film, ma anche davanti a grandiose non più verdi attrici come Maryl Streep o Jane Fonda, solo per citarne alcune. Lasciamo la questione al pettegolezzo.

In questa pellicola che si può dire al femminile, le donne, tutte, dalla più anziana Fabienne alla figlia, fino alle bambine arruolate nei panni di figlie e nipoti in un moltiplicarsi di rimandi e di capelli biondi, sono raccontate con tenue disincanto, con discreta attenzione ai primi piani dei volti, ai piani inclinati che spesso colgono il dolce profilo di una Binoche sempre bella nella noncuranza casual del suo personaggio e nell’avanzare dell’età.

Grazie ai dialoghi, agli ambienti e alla semplicità degli elementi in scena, il regista restituisce naturalezza ai personaggi; nella sua ricerca di una loro verità si annida la cupa bellezza del film, il primo lavoro di Hirokazu girato in Europa, a Parigi, in interni per lo più domestici, lasciando fuori la città, oltre il giardino silenzioso di una villa signorile.

Dunque un film sulla verità che innesca un gioco di specchi sul cinema, narrando attraverso le riprese altre riprese che a loro volta rinviano alla storia filiale che regge il plot. Riemerge anche in questo lavoro il bisogno di indagine che il cinema torna a fare su sé stesso come nell’ultimo colosso di Tarantino, o più trasversalmente in quella cinica prova di docufiction di Franco Maresco, La mafia non è più quella di una volta. O ancora in Selfie   di Agostino Ferrente, col suo sperimentalismo di cinema “totale” dove i protagonisti sono tutti, e tutto è in loro: la storia, l’assenza di una storia, le riprese ovvero videoselfie a braccio; i due scugnizzi del rione Traiano sono allo stesso tempo ragazzi di quartiere, attori in senso tecnico, sceneggiatori e operatori di sé stessi (se ne riparlerà).

Ma La verità (a questo punto del commento, al singolare come da titolo francese) è anche un film sul cinema a tema familiare, dove una figlia cerca  il senso del proprio rapporto con la madre, vivendo entrambe dentro allo stesso mondo di finzioni, una sceneggia, l’altra recita, il marito della prima essendo a sua volta un attore scadente e la nipote di Fabienne pure lei già vocata al grande schermo. Cosa si poteva immaginare ancora per evocare – attraverso l’evidente metafora del cinema – la naturale menzogna delle stesse verità che l’uomo insegue dai tempi di Socrate? Nell’abbraccio intimo conciliatore tra le donne a fine pellicola, a Fabienne sfugge una lacrima che subito lei si rimprovera, perché sprecata se spesa fuori dal set. “Un’emozione così va data al cinema”: in questa frase qui non registrata fedelmente, si rivela la morale cinica di questo film: la verità, se accade, va data al cinema, o all’arte tutta; così se hai un’anima e la riconosci, mettila davanti alla cinepresa e sarai ripagato da un certo successo. Fuori dal set, per un vero attore, non esiste che l’attesa di rientrarci. Tutto il resto – prima e dopo – sono continue “prove” di verità.

 

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