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Cinema
La mitopoiesi di Flow
Flow del giovane regista lettone Gints Zilbalodis è un film d’animazione singolare. Innanzitutto per il flusso di immagini che si susseguono senza dialoghi. Secondariamente per l’impossibilità di scindere l’aspetto visivo dell’opera dalla vicenda narrata senza raccordi o spiegazioni; il racconto scorre e viene compreso nel suo dipanarsi senza cedere alla didascalia. Per lo spettatore il vedere e il comprendere coincidono in una teoria ininterrotta che lo avvolge, lo trasporta, cullandolo o scuotendolo in una continuità non priva di sussulti.
Il titolo originale del film è Straume, corrente. Il lemma lettone presente in forma simile in altre lingue germaniche (in inglese “stream”) viene tradotto opportunamente con “flow” per combinare l’idea della corrente d’acqua con lo scorrere delle immagini, l’energia che trascina sferzando, con la morbidezza dell’acqua che lambisce. L’idea del flusso esibisce la nozione di liquidità e l’osmosi tra il tema acquatico e la resa stilistica del prodotto cinematografico come cascata di immagini. Nel lungometraggio non ci sono voci fuori campo né dialoghi, soltanto i versi degli animali, i rumori dell’acqua, le musiche mai pervasive.
La pellicola, del quale sono protagonisti innanzitutto un gatto scuro, poi un capibara, un cane, un lemure e un serpentario, annovera altre presenze animali quali un cetaceo, i pesci e i cervi. Il gatto vive in una casa disabitata nella quale si indovina una presenza umana pregressa. Il tavolo da lavoro di quella che potrebbe essere una falegnameria, schegge di legno, una pialla, i letti, le enormi statue cultuali di felini fuori dall’abitazione potrebbero far pensare a tracce antropiche. Altri richiami alla civiltà umana, quasi assente nel film, sono la barca a vela ove il gatto si rifugia per scampare al diluvio che a ondate interessa il luogo in cui vive e le numerose rovine di templi, edifici sacri e suppellettili (molto care soprattutto al lemure amante del luccichio degli specchi) che si possono ammirare in numerosi passaggi della storia mentre la barca naviga sulle terre sommerse da un’inondazione.
Molto interessante anche la collocazione geografica e temporale della narrazione, poiché le scene boschive fanno pensare a un paesaggio iperboreo coi suoi cervi e i suoi alberi, quelle acquatiche all’Egitto, alla Siria ma anche al Sud America con le sue rovine precolombiane.
Anche gli animali protagonisti provengono da parti diverse del globo e si portano con sé i rispettivi paesaggi e resti abitativi antichi: il lemure dal Madagascar, il serpentario dall’Africa, il capibara dal Sudamerica, il cane e il gatto e la balena invece non hanno una collocazione geografica specifica ma una valenza simbolica trasversale.
Flow, raccontando un diluvio vissuto dai soli animali a differenza di quello universale presente nella maggior parte dei racconti religiosi, si pone come una teogonia affidata ai non umani. In essa riecheggiano narrazioni primitive delle quali conserviamo un ricordo lontano mascherato da rimaneggiamenti, stratificazioni geografiche e temporali. Il politeismo antico ne conserva traccia negli dei teriomorfi, gli esseri sacri con sembianze animali.
Walter Otto richiamando una riflessione di Goethe sull’antropomorfismo tratta da La Vacca di Mirone cita:
“L’aspirazione dei Greci è di divinizzare l’uomo, non di umanizzare il Divino. Si tratta qui di teriomorfismo, non di antropomorfismo!” (W. Otto, Theophania, Il Melangolo, Genova 1975, p. 76).
Il dio ferino è più essenziale e primigenio del dio antropomorfo che nel passaggio dal mito arcaico alla storia assume sembianze umane per potenziarsi come forza divina incorporando l’animalità. Partendo da questo punto di vista ogni ambientalismo con le conseguenti favole contemporanee, non prive di retorica, perde ogni consistenza. Lo diciamo per allontanare da Flow ogni banalizzazione poiché il film abbraccia temi moderni dal punto di vista antico del mito. Zilbalodis istruisce una teriogonia del mondo che, anziché generare un melting-pot postmoderno, assume qui una valenza sorgiva.
Potremmo provare ad elencare alcuni rimandi mitologici del film anche se non crediamo il regista si sia ispirato a qualcuno in particolare dei numerosi racconti cosmogonici. Lo diciamo dopo aver cercato appigli per trovare un raccordo al set mitopoietico che il film allestisce con naturalezza.
Il felino di Flow ricorda il sacro animale egizio e la dea Bastet; il lemure in costante dialogo con il suo specchio fa pensare a una divinità ctonia innamorata della sua immagine riflessa, fantasmatica, richiamando i lemuri romani, spettri dei morti; il serpentario, protagonista tra le altre cose di un’ascesa in cielo circonfuso di luce, è l’animale mistico per eccellenza e nei tratti riconvoca l’uccello Ziz della cabala ed anche la Fenice. Il capibara è un nume terrestre pacifico amante della compagnia ed è il collante del piccolo gruppo, vi si reperisce Ermes, il traghettatore di anime, accompagnato dal cane, un novello cerbero dai tratti delicati e giocosi. Altra figura centrale è il grande cetaceo acquatico, la balena-leviatano che aiuta diverse volte il gruppo di animali a dirigere la barca ed evitare i pericoli della navigazione. Nella conclusione della pellicola questa si fa protagonista di una scena di straordinario impatto emotivo: la vediamo spiaggiata e ansimante mentre l’acqua, che sembrava cominciare a ritirarsi, sta tornando; lo annuncia la corsa dei cervi e gli inconfondibili rumori della corrente che distrugge tutto al suo passaggio come all’inizio della storia.
La vicenda ricomincia conducendoci sulla pista del tempo circolare del mito. Nulla nasce o muore senza ritornare, nulla finisce senza iniziare. La lezione del mito è questa, un flusso inesauribile di immagini che nutrono, illuminano e creano. Il diluvio fecondo di Flow lo ripropone sempre daccapo in un cortocircuito immaginifico, sorgivo, modellare.
https://www.imdb.com/it/title/tt4772188/
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