Cinema
La maternità del cinema. Incontro con Laura Chiossone
“Dovevo fare la regia. In una foto in cui ho otto anni, i capelli corti perché avevo preso i pidocchi, tengo ferma la palla da calcio al centro del campo, mentre con il dito indico le posizioni agli altri: se volete giocare con me!”
Sarà anche per questa attitudine dispotica del regista che di dieci film che escono nelle nostre sale soltanto uno sia diretto da una donna. E Laura Chiossone è una di queste. Una professionalità che nasce nel cortometraggio, si diverte con i videoclip, cresce con una serie robusta di spot pubblicitari, si affina nei documentari, per arrivare al suo primo lungometraggio, ‘Tra cinque minuti in scena’, uscito nel 2013. “Un film che è piaciuto parecchio ai critici, e allora ho detto: vabbè, un film l’ho fatto, ed è qualcosa di bello, adesso faccio due bambini. Non volevo morire sull’altare del cinema.” L’altare del cinema le ha offerto adesso la seconda occasione, che lei definisce “più strutturata economicamente”. Significa che ‘Genitori quasi perfetti’, commedia più aspra che dolce, uscirà in modo robusto nelle sale domani, 29 agosto, con un cast dove spiccano nomi come Anna Foglietta, Paolo Calabresi e Lucia Mascino. L’ambizione del film è alta e leggera: i genitori in questo tempo social, la mutazione in corso, tra lo spavento del riconoscersi e la risata. Il palcoscenico della resa dei conti è la festa di compleanno di un bambino di otto anni.
“L’abitudine social a semplificarci in un post ci ha modificati. Ognuno vende la sua maschera. Anzi, è più una faccina. E senza sfumature il conflitto è imminente. Io stessa tendo a esibirmi come la mamma avventurosa, che porta i piccoli a far campeggio libero nei boschi, li lascia a piedi nudi; e sono pure giudicante verso gli altri. Mi riconosco in ognuno dei difetti dei personaggi del film. Anche nel peggiore di loro, c’è una parte di me.”
Il film inizialmente si chiamava Palloncini, come lo spettacolo teatrale al quale è ispirato, scritto da Gabriele Scotti, che insieme a Renata Ciaravino è anche sceneggiatore del film. Gonfiati, svolazzano, colorano la scena, attirano l’attenzione, e scoppiano all’improvviso; o alla minima sollecitazione. “La metafora è quella. Ma era un titolo troppo sottile. Per portare la gente in sala hai bisogno di dire cosa sei in maniera più veloce. Con Genitori quasi perfetti dici i soggetti, e la loro aspirazione mancata d’un soffio. La presenti già come una commedia.”
“Io non ho mai scritto il progetto della vita” prosegue Laura, come riannodando un pensiero. “Ho sempre colto le opportunità. Sono un buon artigiano, non mi sento artista. E non credo nell’autoproduzione. A me piace che ci sia un mandante. Un qualcuno che sceglie di investire su di te. Altrimenti preferisco vivere.” Che sta anche nel fare il genitore. “Genitori che pensano troppo. Poco margine di improvvisazione e libertà. Io mi son letta decine di libri, dal parto all’allattamento, saggi di ogni tipo, tutto guidato… E poi finisce che i figli diventino la tua prestazione sociale, il tuo risultato. Uno dice: magari nel lavoro e nella vita esterna sono andata così così, però guarda che cosa ho fatto!” E invece, cosa sei diventata? “Ostia! Adesso dico sicuramente qualcosa di tremendamente cattolico e non lo voglio dire…” Dillo, please. Saremo cattolici e comprensivi. “Dico solo che non ho perso niente. Anzi, ho ricominciato a vivere da zero. Ero una bambina che scriveva delle foglie d’autunno che cadevano e leggevo solo l’enciclopedia, e ho cominciato a divertirmi dopo i trent’anni, prima ero troppo complessa. Attraverso i miei figli mi godo cose come disegnare, o scrivere in bella calligrafia…” E le feste di compleanno. Il momento dove la realtà esplode. Sono un padre che le ha disertate da subito, scegliendo la viltà. La madre ha tenuto la barra. “Io ho paura degli altri genitori” mi risponde divertita Laura. “E loro probabilmente hanno paura di me. Provo lo stesso disagio dei sedici anni, alle feste. Quella stessa inadeguatezza, il sentirsi giudicati. Io faccio tappezzeria alle feste di classe. Non riesco a trovare argomenti di conversazione. E ho paura che a furia di trattenere, poi mi esca un battuta sbagliata, tremenda, cinica.”
Insieme al compagno e due figli, maschio e femmina, 5 e 6 anni, Laura vive in questa casa di ringhiera, in una piccola corte a due passi dal Naviglio Grande. “Ho bisogno che venga qualcuno a chiedermi il sale, a raccontarmi cosa gli sia appena successo, del figlio della vicina che arriva e dice: Mangio qui! Ho bisogno di essere interrotta dalle casualità della vita.” Tra queste c’è il bippare di whatsapp. Laura risponde rapida, poi abbandona lo smartphone sul tavolo. E le sue due biglie di vetro azzurro tornano sulla scena.
“Vedi, il messaggiare piatto dello schermo ha appiattito anche le nostre emozioni. Si perdono quell’imbarazzo, l’annusarsi per non ferirsi, insomma la delicatezza nell’approccio al diverso da te. Quando c’è un corpo in azione le relazioni sono più sofisticate.” Io preferisco chiamarle autentiche.
Quanto sono autentici i personaggi del film? “Ce l’abbiamo messa tutta. Sono riuscita ad ottenere gli attori per due settimane prima delle riprese, e in quei giorni abbiamo parlato. Fatto terapia di gruppo. Ho spremuto dai loro vissuti. Hanno tirato fuori aneddoti, anche i più truculenti del parto, che abbiamo usati nella sceneggiatura; e se li sono regalati tra di loro, a secondo del personaggio interpretato nel film.” È stato il momento più divertente nella costruzione del film? “No, c’è prima la scelta degli attori. E amo che ci sia una formazione anche teatrale. Per un paio d’anni ho fatto l’attrice anch’io, conosco il terrore di lasciarsi andare, anche per questo ho scelto la regia. Li ho scelti intelligenti, soggetti pensanti.” Mi aspetterei un po’ ironia nella frase, che accerta che molti non lo siano. Invece no, prosegue appassionata. “Ed è partito il mio lavoro di conquista e seduzione. Il regista si deve guadagnare la fiducia, in modo che gli attori abbandonino completamente, ti regalino se stessi. Io credo di cavarmela bene con gli esseri umani.” Loro si regalano, dici. Tu cosa fai? “Mantengo la pazienza. Ho cura di loro. Si sono messi in una condizione di nudità, e quindi avranno dei momenti di crisi, di panico, di ripensamenti. Classica roba dell’attore: Ma allora il mio personaggio che senso ha?” Si sentono carne in causa. “Certo, e tu devi rassicurarli. E non annoiarli. Ma nello stesso tempo usare i loro dubbi nella sceneggiatura… ” Squilla il telefono. È il produttore del film. Mi alzo e mi muovo per la casa su due piani, con scalinata in legno grezzo, file di libri come muretti, uno grossa lavagna nera con scritti in gessetto i lavori di manutenzione casalinga da completare. C’è disordine, ma solo apparente, molto scenografia. Laura ci tiene al suo animo punkabbestia. La sua stessa auto lo rivendica. Una Subaru sporca, piena di terra, molto discarica. Al primo incontro con Anna Foglietta le ha chiesto di guidarla nel traffico di Milano, simulando una scena del film. Voleva vedere come si metteva in gioco. E l’attrice, tre figli e uno grande sguardo drammatico, si è subito prestata all’avventura psicologica dello sporcarsi. Il film è una commedia estiva: per quanto amara, vorrà un lieto fine. “Io sono femmina, ho bisogno che tutto finisca bene. E per me bene è nel finale catartico, che ti fermi a ragionare sull’errore e sulla degenerazione. E lì c’è l’incontro.” Hai incontrato diverse forme di regia. Ti avranno dato mestiere e autostima. Facciamo la somma delle esperienze.
“Nei documentari ho imparato ad ascoltare. A lasciarmi invadere da una storia, e cercare di porre la domanda giusta al momento giusto. Ascoltare è una cosa che poi al cinema fai con gli sceneggiatori e gli attori. Ma anche con i produttori.” E qui ride. Anche il denaro va sedotto. I videoclip. “I film che faccio sono impregnati di musica. Io stessa ho suonato in un gruppo. Anche in questo film ci sono due momenti in stile videoclip, che non svelerò. Nel lavoro con i pezzi famosi si gioca con l’immaginario degli spettatori.” Intanto Laura mi indica un gatto che sale le scale. Si chiama Tao e abita la corte. Ha solo tre zampe. Osservo il suo movimento secco e semiacrobatico. La pubblicità. “Per me è la quotidianità. Non voglio metter piede sul set ogni tre/cinque anni, come succede per chi fa solo cinema: devo mantenere l’abitudine a dirigere, ad avere a che fare con le maestranze, usare e sperimentare nuove tecnologie, che diventano nuovi linguaggi. Poi anche qui è un gioco di ruolo. Il cliente spesso non è così sensibile all’estetica, all’ironia, e io cerco di portarlo dalla mia parte, oltre il suo messaggio funzionale. Quando conduco il gioco, faccio in modo che tutti si divertano, si sentano realizzati. A loro agio.” Despota e filantropa. “Ma lo faccio per mio interesse. Avere gente serena, al posto che gente spaventata o titubante, fa la differenza. Cosa che faccio anche con il cliente e con il creativo. Alla fine tutta la mia vita è la stessa cosa: faccio la regia.” Tu pensa al mio compagno!” E ride. Per finire, gli inizi: i corti.
“Quando nessuno ti caga cerchi di fare un corto. Io ho avuto il privilegio dell’interesse del regista Luca Lucini, che mi diede un assegno in bianco per fare il primo corto.” Il corto in questione è ‘Routine’. “Mi ha preso un’ansia tale che gliel’ho ridato stracciato. E ho trovato tutto gratis: pellicola, macchina presa, a fine set recuperavo gli avanzi di pellicola, ma quel gesto mi aveva responsabilizzato, e dato autostima, merce senza prezzo.” Luca è coproduttore anche di questo lavoro, insieme a Marco Malfi di Rosso Film, a cui si deve la nascita di entrambi i film, e a Marco Cohen di Indiana, che Laura definisce “l’uomo che sa rendere le cose veloci e semplici”. Stavolta, più che all’unanimità della critica, si punta a riempire le sale. “A me piace parlare a tanti. Mi piace la cassiera del supermercato, la sua vitalità e la sua malinconia, per me è una protagonista, io voglio parlare di lei. E a lei.”
Vivi da sempre a Milano. Quanto è importante questa città? “Milano non è importante, è casa. Io sono Milano. Come attitudine, come approccio al lavoro; sono orgogliosissima di questa città. Ci sono spazi verdi e spazi culturali, succedono cose ogni weekend, ti riempie di occasioni… Mi commuove parlare di Milano. Ogni angolo della città è legato a qualche momento della mia vita, a un lavoro che ho fatto, ma anche a un bacio, un addio, un attesa. Molto romanticamente. È rassicurante per me, muovermi nell’architettura della mia vita. Vivere nella mia memoria.”
Sono il motore dei tuoi film: cosa non sopporti delle donne? “La permalosità. È difficile prenderle per il culo. Io però non ce l’ho questa cosa, è il mio lato maschile. Adoro essere presa in giro. Se lo fai significa che mi vuoi veramente bene.” Cosa ti porti dietro della laurea in filosofia? “Tutto. Filosofia è arte del dubbio, fine del pregiudizio. C’è il mettersi in crisi, essere autoironici, e soprattutto seguire il tema sul quale stai lavorando. Se tu fai tornare a quel concetto tutte le scelte estetiche, tipo anche i costumi, le scenografia o la musica, se tutto torna lì, quel concetto lo esalti, e lo completi. Hai una forma e un contenuto.” Ma tu non firmi la sceneggiatura. “No. Anche se è scritta per me, con la mia supervisione, e indico direzioni e modifiche. Io accolgo l’idea, e la faccio mia. La mia è una maternità. Genero, non semino.”
Devi fare login per commentare
Accedi