Cinema
“La La Land” ha successo perché parla di noi
Ci sono film che ricordiamo per alcune scene memorabili, per il monologo dei protagonisti, per l’intreccio della trama o la ricchezza di colpi di scena. “La La Land”, strano prodotto cinematografico in bilico tra commedia hollywoodiana e musical d’altri tempi colpisce lo spettatore per il modo stesso in cui il regista Damien Chazelle (già autore dell’acclamato Whiplash) lo ha confezionato: una coppia di ballerini/cantanti non professionisti (Ryan Gosling ed Emma Stone), una storia d’amore tutto sommato semplice scandita dallo scorrere delle stagioni, il prezzo da pagare per inseguire i propri sogni e accettare i fallimenti che la vita ci mette davanti. A fare da sottofondo alle avventure dell’aspirante attrice Mia e del jazzista incompreso Sebastian una colonna sonora che mixa ballate jazz e scatenati brani corali della miglior tradizione con un delicato leitmotiv (“City of Stars”) e che ha permesso al film di mettere a segno il numero record di 14 nomination all’Oscar, tra cui quello per la Miglior colonna sonora.
Per (cercare di) capire il film non si può non partire dalla musica. In Whiplash il protagonista era un giovane batterista divorato dalla passione per il jazz e disposto a tutto pur di compiacere il proprio esigente maestro di Conservatorio. Una passione in chiaroscuro, in cui l’amore smodato per la musica si accompagnava alla pericolosa ossessione per la perfezione. La musica di “La La Land” è invece una compagna di viaggio irrinunciabile per Sebastian, pianista spiantato che si ribella inserendo virtuosismi jazz all’interno delle canzoncine di Natale che il gestore del suo locale lo obbliga a strimpellare per clienti distratti. Mia, impiegata in un caffè che sogna da sempre di fare l’attrice, si abitua gradualmente a far entrare la musica nella sua vita e a comprenderne le logiche senza la devozione purissima dimostrata dal suo compagno. Un interessante articolo apparso recentemente sul Washington Post ha identificato nel modo in cui il jazz e i jazzisti vengono ritratti una delle maggiori pecche del film: dall’accusa di averlo presentato come patrimonio della comunità bianca mettendone in secondo piano le radici afroamericane a quella di aver costruito un personaggio maschile eccessivamente snobistico e folle. Quello che però conta davvero è che la musica è una delle autentiche protagoniste del film e che, diatribe tra critici a parte, anche un genere di minor facilità di fruizione come il jazz può essere addomesticato, capito e apprezzato fino in fondo aprendoci all’ascolto senza pregiudizi.
Rinnovare nella tradizione non è uno slogan e vale per tutti i campi, non solo per quello cinematografico. Potrebbe suonare come uno stereotipo o una frase fatta, ma è in realtà è una delle sfide più complesse per qualunque professionista, di ogni settore. Il musical atipico messo in scena da Chazelle, anziché essere una reiterazione dei modelli del passato, è un’operazione freschissima che gioca sulle citazioni (più o meno scoperte) e riflette con disincanto sull’inevitabile distanza tra un passato troppo mitizzato e un presente spesso arduo e apparentemente privo di speranza. “La La Land” ci fa ammettere, tra un ballo e una serenata, che “i film e la vita non vanno sempre con lo stesso passo” (come ha scritto Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera), ma non per questo dobbiamo rinunciare a credere nello strano potere dell’arte e del cinema. Il suggerimento di Chazelle per ciascuno di noi, anche per chi fa il mio mestiere, è che si può credere nella lezione del passato senza ridurlo ad un simulacro, ma “osando” metterlo in discussione e rielaborarlo come una cosa viva. Ed ecco che un ballo di fronte al cielo stellato si interrompe comunque per via dello squillo intermittente di un IPhone.
Infine, l’osservazione più scontata: “La La Land” conquista il pubblico perché, in un momento storico di incertezza e di minacce globali alla nostra sicurezza, è confortevole rinchiudersi in sala circondati dai lustrini e dai buoni sentimenti di altri tempi. Eppure il film non si svolge in un’atmosfera irreale, se non per qualche sprazzo creato dall’immaginazione dei protagonisti: i problemi quotidiani irrompono con forza, il sapore amaro dei fallimenti e la complessità delle proprie scelte è un tema ricorrente lungo tutto il film sino a raggiungere l’apice nell’epilogo, che ovviamente non svelerò. Più che una fuga dalla realtà, un inno alla capacità di essere folli e di accennare qualche passo di tip-tap anche se dobbiamo pensare ad un’incombenza “poco romantica” come le bollette di casa.
In fondo, “La La Land” parla di noi, delle nostre generazioni in bilico tra lavori temporanei e l’incertezza di un futuro tutto da scrivere, tra la purezza di un sogno da perseguire “così come vogliamo noi” e i piccoli e grandi compromessi che la vita ci abitua ad accettare. Una generazione di Mia che sogna le luci della ribalta e la realizzazione professionale servendo un caffè caldo al bancone. Una generazione di Sebastian che vive nel culto di un passato che ci svanisce di fronte e per la cui sopravvivenza possiamo fare la parte degli incompresi oppure accettare di rimetterci in gioco in modalità spesso inaspettate.
Insomma Chazelle ci ricorda, con la sua consueta eleganza, che le idee rivoluzionarie non nascono senza quel pizzico di follia che impedisce alle nostre ambizioni di essere soffocate dalla routine e dai momentanei insuccessi.
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