Cinema

La guerra nella fantasia popolare da Kubrick a De Andrè

9 Gennaio 2016

Quando il progetto di fare un film su Napoleone svanì, Stanley Kubrick si buttò a capofitto su un romanzo di Thackeray per narrare la saga e le vicende di un giovane in tempi di guerra settecenteschi, e così venne fuori Barry Lyndon. L’ossessione maniacale per le ricostruzioni il più realistiche possibili dell’epoca del regista americano ci regalerà un grande affresco di quelle che sono tecniche e strategie militari del Settecento, le suggestioni kubriackiane arrivano fino all’analisi nel dettaglio dei costumi, tanto che si ispirò anche ad alcuni capolavori dell’arte moderna per ricostruire tutto perfettamente. In Barry Lyndon il combattimento in guerra è ancora un corpo a corpo, ci sono le baionette ma il protagonista del duello che domina la scena è lo scontro fisico dell’uno contro uno. Se andiamo con la memoria a ritroso nel tempo fino a Omero ci accorgiamo di come la guerra sia onnipresente ma sempre diversa e rinnovata a seconda delle epoche. Certo non mancano i piccoli ingegni creativi neanche in tempi greci di diretto scontro fisico, come il celebre cavallo di Troia che tutti coglie di sorpresa e diventa uno stratagemma militare di intelligenza piuttosto che di forza.

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La strategia militare è un’arte sottile, e sicuramente il piccolo Napoleone è riuscito a dominare l’Europa non solo grazie alla forza ma anche per merito della tattica, e da qui possiamo partire per sviscerare la speciale fascinazione per l’imperatore corso che vien fuori dai romanzi di Stendhal. Grande ammiratore di Napoleone, lo scrittore francese ci descrive le sue memorie in Vita di Napoleone, e sibillinamente racconta il carattere animoso e coraggioso di Fabrizio Del Dongo ne La Certosa di Parma, per testimoniare le guerre napoleoniche e il dramma dei giovani soldati. I Napoleoni mancati nella fantasia popolare sono tantissimi, e persino Bonaparte stesso sul finale della sua epopea diventa un Napoleone mancato, o sconfitto, vittima di Waterloo e dell’esilio. Da parte russa anche Lev Tolstoij ci racconta con dovizia di particolari la prodigiosa e amara campagna di Russia in Guerra e Pace: ”Nessuno vorrà negare che la causa della disfatta delle truppe di Napoleone sia stata, da un lato la loro avanzata troppo tardiva e senza preparazione per una campagna invernale nel cuore della Russia, e dall’altro lato il carattere che assunse la guerra per effetto dell’incendio delle città russe e dell’odio contro il nemico che ribolliva nel popolo russo”. E in Amore e Guerra, Woody Allen riprende questi temi mettendo in scena una parodia della campagna russa napoleonica, con eserciti che somigliano a burattini.

Con un salto temporale arriviamo al Novecento di Ernest Hemingway, dalla Prima Guerra Mondiale di Addio alle armi, alla Guerra Civile Spagnola di Per chi suona la campana, il realismo dello scrittoraccio americano ci mette a fare i conti con la terribile verità della guerra e degli schieramenti nemici: ”Gli ordini soltanto ci dividono. Quegli uomini non sono fascisti: io li chiamo così, ma non lo sono. Sono poveri diavoli come noi”. L’odore di sangue lo ritroviamo anche nella descrizione delle corride, Morte nel pomeriggio evoca ancora la lotta, stavolta quella dell’uomo contro il toro, richiamando alla memoria le terribili cinque della sera che battono il colpo in García Lorca quando dedica versi alla morte del torero Ignacio Sánchez Mejías. In questi anni violenti un conosciuto movimento poetico e artistico si fa largo: ”Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna”, così diceva uno degli 11 punti del Manifesto del Futurismo nel 1909, e su queste basi si animarono tele, manifesti, e scritti ispirati all’animo guerriero e combattente.

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Ma tutto questo odor di sangue e morte è solo un antipasto per quella che sarà la guerra più raccontata, evocata e sviscerata: la Seconda Guerra Mondiale, che ha conquistato l’immaginario collettivo grazie alla malata fantasia di Adolf Hitler (quest’anno la Germania ha sdoganato e ripubblicato il Mein Kampft, libro preludio dell’orrore che seguirà l’Europa e il mondo negli anni successivi alla sua pubblicazione, cosa atipica per un libro non religioso). A ripensarci oggi è ancora pazzesca l’operazione messa in piedi dal nazismo, la feroce eliminazione di prigionieri e nemici di guerra che provava a risparmiare i costi ammassando tutti in campi di concentramento. A partire da questo momento il racconto del terrore si fa sempre più vivo, e non parliamo solo delle testimonianze dei sopravvissuti, come quella raccontata da Primo Levi (”C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio”), ma anche della filmografia che si è ispirata a inquadrare quel periodo nero che ha letteralmente sconquassato la storia. E se Bertold Brecht in proposito del silenzio della letteratura nei tempi oscuri si domandava: perché i loro poeti hanno taciuto?, la memoria a ritroso di Roberto Bolaño inventa ed evoca una letteratura nazista americana che in fondo non esiste, ma è questo il miracolo della creazione. Da qui in poi troviamo un Sudamerica stravolto dalle sanguinarie dittature, che produrrà un’enorme mole di letteratura e poesia, mentre nel Nordamerica si comincerà a sentire l’eco di pezzetti di guerra lontani, come il pantano del Vietnam, con la sua epica degli elicotteri inquadrata dalle telecamere di Francis Ford Coppola in Apocalypse Now. Gli strascichi delle guerre a distanza sono ancora sotto i nostri occhi, e non c’è autore americano che non si sia confrontato anche con le guerre a distanza del secondo Novecento.

Come contraltare al racconto eroico di guerra c’è anche un’altra narrazione della diserzione, come diceva Jean-Paul Sartre il soldato ha sempre una scelta per rifiutare di combattere, può disertare o suicidarsi. In questo incavo della memoria raccontata – che prova a evitare la retorica semplice della pace – c’è posto invece per il silenzio e la fuga, fino ai tentativi di narrazione che farà pure Fabrizio De Andrè della guerra, col suo soldato Piero, e poi ancora evidenziando la terribile verità dell’eterno ritorno della guerra negli intermezzi di Tutti morimmo a stento, nel Girotondo, o nel Re Carlo che torna dalla battaglia di Poitiers. E non fu il solo De André, dall’altro lato dell’Atlantico si agitavano i testi di poeti che si erano ceduti alla musica come Bob Dylan e Leonard Cohen. La guerra, oltre che fanatica, nel suo racconto acquisisce uno schiacciante senso del ridicolo, nell’attraversare epopee e movimenti di tempo quasi si smaterializza e poi si incarna in un mostro assassino che arriva fino ai giorni nostri. Se siamo rimasti sconvolti da questo incessante e rumoroso susseguirsi della storia, non possiamo che piegarci alla tremenda narrazione che ci arriva da qualche anno a questa parte dalla Siria, e ricordare la vecchia storia di quella nave carica di ebrei che partì dall’Europa per sfuggire al nazismo e chiedere aiuto agli Usa, ma che fu rispedita indietro appena arrivata sulle coste americane. Il dilemma in fondo è sempre lo stesso: esiste un modo per evitare di inciampare sempre negli stessi errori?

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