Cinema
La gloria postuma di Claudio Caligari
La gloria è postuma per definizione, i profeti in patria non esistono e l’Italia ha una tendenza ad esiliare le sue migliori menti che ormai affonda le radici nei secoli. Così, che dopo aver passato tutta la sua vita ad essere sostanzialmente ignorato dai giri che contano davvero, per ritrovarsi con un film candidato agli Oscar Claudio Caligari abbia dovuto tirare le cuoia, stupisce fino a un certo punto. Poi, insomma, «candidato all’Oscar»: ci vorrà ancora tempo per capire se sarà davvero così, per ora il suo «Non essere cattivo» è il nome proposto dall’Italia, dopo si vedrà come andrà a finire.
Però Caligari resiste, o almeno lo fa il suo cinema. Classe 1948, tre film in carriera, più qualche documentario. Il primo, del 1983, è il seminale «Amore tossico», ritratto abbastanza crudo e molto pasoliniano di un gruppo di eroinomani che vivono di espedienti più o meno legali tra Ostia e Centocelle. Gli attori, come da tradizione neoralista, tutti non professionisti, tossici o ex tossici, i nomi dei personaggi erano gli stessi degli attori per dare maggiore spontaneità all’opera, e i ‘buchi’ erano veri, anche se nelle vene ci finiva un epatoprotettore, che aveva sì effetti benefici sul sangue ma che pare causasse qualche difficoltà agli interpreti. Un piccolo culto, con qualche scena entrata direttamente nel mito collettivo, almeno in alcuni ambienti: «Ma come? Dovemo svortà e te piji er gelato?». Epico.
La seconda impresa sarebbe arrivata soltanto quindici anni dopo, e qui, per parere personale di chi scrive, siamo di fronte al vero capolavoro di Caligari: «L’odore della notte», del 1998. Storia di estrema malavita romana alla fine degli anni ’70, con un gruppo di poco di buono capitanato da Valerio Mastrandrea, specializzato in rapine nelle case dei ricchi. Nel cast anche Marco Giallini, Giorgio Tirabassi e un memorabile cameo di Little Tony. Citazioni (il Martin Scorsese di Taxi Driver) e autocitazioni da «Amore tossico» per la trasposizione su pellicola del bel romanzo di Dido Sacchettoni, «Le notti di Arancia Meccanica».
Seguono anni e anni di silenzio, un titolo («Anni Rapaci») in eterna fase di pre-produzione, una leggenda sempre crescente, un appello dell’amico Mastrandrea a Scorsese per dare una mano alla produzione di un nuovo film. Alla fine il nuovo film Caligari l’ha girato davvero, ma la morte è arrivata a montaggio appena finito, lo scorso maggio. «Non essere cattivo» è stato atteso in maniera spasmodica, è finito al Festival di Venezia inspiegabilmente fuori concorso e nelle scorse settimane è stato distribuito nelle sale italiane. La critica, va detto, ha apprezzato parecchio.
La storia è ambientata negli stessi luoghi di «Amore tossico», in un arco temporale che attraversa gli anni ’90, quando il consumo delle sostanze cambiava e (di conseguenza, direbbe qualche sociologo) cambiavano anche le generazioni. La trama, per certi versi, è un mix dei due precedenti lavori di Caligari: c’è lo spaccio, c’è la piccola criminalità, c’è quella tensione alla ricerca di una redenzione (quasi) impossibile che conferisce al tutto una sfumatura da classico del noir. Resta lo sguardo pasoliniano del regista verso la borgata, c’è un po’ troppa aria di drammone all’italiana, almeno a tratti. Poi, certo, grande regia, interpreti magnifici, ottima colonna sonora, fotografia molto convincente. E’ un bel film «Non essere cattivo», non un capolavoro. La sensazione è di trovarsi davanti a un’opera interlocutoria, di quelle che nella carriera di un cineasta segnano il passaggio da una fase a un’altra, tra un discorso da chiudere e una nuova guerra da combattere. Insomma, la morte di Caligari probabilmente ha sottratto un bel po’ di grande cinema a tutti quanti noi.
Adesso c’è anche questa storia degli Oscar. Con ogni probabilità, a leggere qualche intervista, a lui gliene sarebbe fregato poco. Sicuramente l’avrebbe fatto incazzare da morire il fatto che questa cosa sia uscita soltanto alla sua morte, come estrema mossa di piaggeria da parte di un establishment culturale (quello italiano) che pare arrivare sempre in ritardo sulle cose, quando ormai i giochi sono fatti e ci si può solo accodare a un filone fatto e finito. Perché Caligari non è stato considerato quasi da nessuno per tutta la sua carriera? E perché viene rivalutato soltanto oggi? In fondo «Non essere cattivo» non dice niente di nuovo sulla sua poetica e sui suoi temi. Qualcuno dirà: è un tributo. La verità è, appunto, che la morte lo ha fatto bello, a Caligari. Almeno agli occhi distratti della presunta e sedicente avanguardia intellettuale contemporanea del Belpaese. Ci sarebbe da arrabbiarsi, non c’è tempo né spazio, almeno qui.
Valerio Mastrandrea racconta un’episodio che aiuta a capire qualcosa in più sul personaggio. Una volta lui stava accompagnando Caligari dall’oncologo. A un semaforo il regista fa: «Muoio come uno stronzo e ho fatto solo due film». Segue un «epico silenzio», poi Mastrandrea risponde: «C’è gente che ne ha fatti trenta ed è molto più stronzo di te». La lotta (assolutamente di classe) di Caligari era anche questa: tre film in trent’anni sono una media degna di Thomas Pynchon (il grande fuggiasco della letteratura americana), e quando le cose vanno così vuol dire lasciare tutti con un dubbio pesantissimo: ha detto tanto in pochissimo tempo o ha detto poco e ci ha messo troppo?
«Se c’è un aldilà sono fottuto», disse ancora Claudio all’amico Valerio un’altra volta, in una sala d’attesa del ministero dei Beni Culturali. Mastrandrea lì per lì si mise a ridere. Qualche tempo dopo, celebrando la morte del regista, avrebbe concluso: «Se c’è pellicola non sei fottuto per niente».
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