Cinema
La fiction italiana è come un film di Carlo Verdone
La fiction italiana soffre della sindrome di Compagni di scuola. Compagni di scuola è quel film nel quale Carlo Verdone immagina una rimpatriata tra ex compagni di liceo, di cui però, inspiegabilmente, nove sono romani, due sono napoletani, uno è romagnolo, una è lucana, una è siciliana, uno è trentino, una è pugliese e due sono toscani. Insomma, nessuna attenzione alla provenienza geografica, agli accenti e ai dialetti.
Nella fiction nostrana, accade la stessa cosa. Pensiamo, per esempio, a Una grande famiglia, serie per altro apprezzata dalla critica ed elevata a modello di prodotto di qualità. Racconta la storia dei Rengoni, una famiglia che vive in Brianza. Ora, non si poteva certo pretendere che tutti i protagonisti fossero di Monza, Seregno o Vedano al Lambro, ma almeno qualcuno con un accento minimamente somigliante al brianseoul si poteva trovare. E invece no: il capofamiglia Ernesto è interpretato dal bolognese Gianni Cavina, mentre la moglie Eleonora ha il volto e la voce della viareggina Stefania Sandrelli. E poi i figli: il primogenito Edoardo è il romano Alessandro Gassman (i cui figli Valentina ed Ernesto sono la romana Rosabella Laurenti Sellers e il teramano Filippo De Paulis), la quartogenita Nicoletta è la romana Sarah Felberbaum e il quintogenito Stefano è il – guarda un po’ – romano Primo Reggiani; in mezzo si salverebbero solo la secondogenita Laura, interpretata dalla milanese Sonia Bergamasco (ma suo figlio Nicolò ha l’accento torinese di Luca Peracino) e il terzogenito Raoul, cioè il bergamasco Giorgio Marchesi (ma l’accento bergamasco e quello brianzolo hanno ben poco in comune). Insomma, pare che in Brianza l’inquinamento faccia nascere figli con un forte accento romano: altro che le piaghe d’Egitto.
E che dire di Braccialetti rossi? Altra serie osannata dalla critica, altra serie in cui il contrasto tra location e inflessioni dialettali dei protagonisti fa quantomeno storcere il naso. Già, perché in una fiction ambientata in Puglia, trovare almeno un protagonista nato in regione è un impresa ardua: tra i giovani pazienti, il romagnolo Carmine Buschini presta il volto a Leo, il romano Brando Pacitto è Vale, la torinese Aurora Ruffino è Cris, il napoletano Pio Luigi Piscicelli è Toni, il romano Lorenzo Guidi è Rocco e il romano Mirko Trovato è Davide. E trovare un brindisino, un barese o un tarantino tra gli altri personaggi non è più semplice, dal napoletano Giampaolo Morelli alla romana Carlotta Natoli, dalla trevigiana Michela Cescon al romano Raffaele Vannoli.
L’elenco sarebbe potenzialmente infinito, a volte con effetti comici: quelli di Un passo dal cielo, per esempio, la serie di Raiuno ambientata in Trentino-Alto Adige, a San Candido, dove, ovviamente, di attori bolzanini nemmeno a parlarne (d’altro canto, nella realtà gli abitanti di San Candido si chiamano Egon Kuhebacher, Kurt Sulzenbacher, Matthaus Rader e Christian Oberstolz; nella fiction si chiamano Vincenzo Nappi, Felicino Scotton, Silvia Bussolati e Giorgio Gualtieri).
Certo, l’abitudine di non dedicare alcuna cura agli accenti o, peggio ancora, di storpiarli in modo inascoltabile non è nuova, e non è appannaggio esclusivo della televisione: orrori come l’Enzo Jannacci di Le coppie che parla in sardo (tanto per rendere il sardo basta solo invertire l’ordine delle parole nelle frasi, no?), il Diego Abatantuono de Il barbiere di Rio che parla in romano (tanto per rendere il romanesco basta solo dire “de che” invece che “di che”, no?) o perfino il Giancarlo Giannini di Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di agosto che parla in siciliano (tanto per rendere il siciliano basta solo dire “vogghia” al posto di “voglia”, no?) non sono mai stati stigmatizzati come avrebbero meritato.
Se non ci si preoccupa di questi aspetti, come si può pretendere un livello qualitativo sufficientemente alto dai prodotti audiovisivi nostrani? Le inflessioni dialettali sono elementi che non possono essere trascurati nella valutazione della qualità delle fiction nostrane. E vale la pena di farlo, perché la televisione non è solo share, guide tv su Sorrisi e Canzoni, ironie su Studio Aperto e parodie di Masterchef, ma è anche denaro, politica e, soprattutto, reputazione internazionale. Se ci si vuole affrancare dal classico stereotipo italiano che viaggia sul doppio binario mare / mafia (non sarà un caso se tra i prodotti televisivi di maggior successo c’è Il Commissario Montalbano) tanto celebre all’estero, urge una rivalutazione a 360 gradi del lavoro di produzione di una fiction, che non includa unicamente la scrittura di sceneggiature sorprendenti e ritmate e l’inserimento di paesaggi naturali in ogni inquadratura per fare contenta la Commission del posto, ma anche la scelta ponderata degli attori in base alle loro capacità, al loro talento e, perché no?, al loro accento.
Foto: Moviedigger.it
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