Cinema

La fede e le sette. Intervista alla regista Valentina Pedicini

di
29 Aprile 2020

“Tutto parte da undici anni fa, quando frequentavo la scuola di cinema Zelig a Bolzano. Ero al primo anno, non avevo mai fatto cinema prima, quando per strada mi imbatto in una manifestazione di kung fu. Basta un attimo, e mi innamoro”.
A parlare è Valentina Pedicini – brindisina, classe 1978, all’attivo dei piccoli gioielli come il film Dove cadono le ombre, approdato nel 2017 al Festival del Cinema di Venezia, e il cortometraggio Era ieri– che ha recentemente presentato durante la Settimana della Critica del Festival di Berlino il suo documentario Faith, incentrato sui Monaci Guerrieri, una comunità che da vent’anni vive isolata dal mondo in un regime di povertà francescana, preparandosi a una futura e devastante guerra.

Mi scusi, ma di chi si innamorò?
Vidi questa ragazza, una campionessa mondiale di kung fu, e venni conquistata. Scelsi di raccontare la sua storia di donna capace di imporsi in un campo prettamente maschile e così decisi di entrare nella palestra dove il gruppo si allenava. Mi accorsi subito di essere arrivata in una dimensione inaspettata, una famiglia alternativa. Ma ero ancora troppo giovane dal punto di vista psicologico, emotivo e lavorativo per affrontare una storia così forte.
E così ha scelto di tornare a occuparsene dopo undici anni da quel primo incontro.
Avevo bisogno di affrontare questa storia fino in fondo, fino a risolverla. E mi sono resa conto che era la summa di tutti i film che avevo fatto negli anni precedenti.
In che senso?
Faith ha riassunto un sacco di cose che mi appartengono dal punto di vista cinematografico: la scelta radicale, l’accesso privilegiato a un mondo sconosciuto, le questioni relative a cosa è raccontare la verità e cosa la realtà, la scelta registica del bianco e nero, l’amore per l’estetica non fine a se stessa, la dimensione tecnica che ti porta a fare una scelta radicale. Forse anche per questo è un film radicale, almeno credo.
È stato accolto straordinariamente bene dalla critica. Ma come siete riusciti a entrare in un gruppo così chiuso?
Con il tempo. Abbiamo vissuto quattro mesi dentro la comunità, dall’alba a notte fonda. Giravamo dieci, dodici ore al giorno. Il tentativo era quello di sparire, e riuscire a rintracciare attraverso la camera e la regia la verità delle cose. Abbiamo sempre avuto la lucidità di tutelarci psicologicamente ed emotivamente dormendo all’esterno. Se non avessi imposto questi tempi, se la mia produttrice non avesse capito, non sarebbe il film che è.
Qual è stata la sfida più complessa?
Il rapporto con il maestro. Era ovviamente un rapporto gerarchico: io ero il maestro, ai suoi occhi, della mia piccola comunità in qualità di regista. Questo ha costruito uno stranissimo rapporto paritario che lo ha anche messo in discussione.
Nei mesi delle riprese, abbiamo esercitato su di noi l’isolamento, cercando di non giudicare. Volevo che le persone arrivassero alla fine del film e si facessero delle domande. Non è stato facile. Ci sono delle cose all’interno della comunità che non mi appartengono, e non mi apparterranno mai, ma mi è sembrato giusto che fossero loro, i monaci, a raccontarsi.
Cosa si aspettava prima di iniziare a girare?
Volevo capire perché a vent’anni qualcuno sceglie di chiudersi al mondo, ed entrare in un universo pieno di regole e di precetti. Stando lì dentro ho capito che c’è una stranissima forma di felicità, che non è la mia, e che però esiste. Una felicità controllata e veicolata da una serie di dettami. Banalmente, e forse anche in modo retorico, volevo narrare una storia piccola per raccontare un meccanismo più grande che ci troviamo davanti anche nella vita quotidiana, a cominciare da quello che accade nelle famiglie.
Come lo chiama questo meccanismo?
Ironicamente è il titolo del film. Non è la fede cristiana, a cui alcuni di loro appartengono, e non è la battaglia che combattono contro il male, ma è il dedicare la propria esistenza a qualcosa di più grande che non è possibile vedere, che non è tangibile. Mi sembrava che fosse un titolo anche politico. Volevo raccontare come, a volte, le persone affidino le loro esistenze ad altri, traendo forse una risposta ai problemi del quotidiano, ma perdendo qualcosa rispetto alla complessità dell’esistenza.
Quali sono state le reazioni dei monaci alla visione?
La chiarezza mi ha tutelata. Ho sempre detto che non avrei nascosto niente. Volevo, per una questione di rispetto documentaristico, che lo vedessero prima di tutti. Insieme alla produzione abbiamo affittato una sala cinematografica per due ore. Il maestro mi ha detto: “Mi hai portato al cinema dopo ventidue anni”. Le reazioni sono state positive, si sono commossi, il maestro ha capito anche la durezza di Faith, ma mi ha detto: “Quando la realtà è raccontata con una tale onestà e poesia, non si può fare altrimenti che dire sì, questa è la verità”.
È felice di essere tornata al documentario dopo un film di finzione?
Faith mi ha riportato al mio grande amore, il documentario, e mi ha riportato a una modalità di fare cinema che fa parte di me. Il documentario ti espone fisicamente a un altro tipo di confronto. Puoi concederti un tempo che difficilmente nel cinema di finzione puoi avere.
A cosa sta lavorando?
In cantiere c’è un film di finzione e una storia vera da girare con modalità documentaristica.
Da Berlino il cinema italiano, prima dello stop coronavirus, è sembrato vivissimo.
Penso che da tanto tempo ci sia un fermento nel cinema italiano, si muovono delle cose importanti, e mi sembra sconcertante che negli ultimi anni i due grandi festival europei, ovvero Venezia e Berlino, siano stati vinti da un documentarista, Giancarlo Rosi. Eppure, nonostante questo, il documentario è ancora considerato un cinema di serie B.
Sul ruolo femminile nel cinema non dice nulla?
E che devo dire?  Sono sconvolta dai David di Donatello, dove la presenza femminile è stata molto, molto ridotta.

 

 

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