Cinema
La critica e l’arte dell’attore: una risposta a Renato Carpentieri
Dedico questo post – ma spero possano leggerlo tutti – ai malati di teatro che hanno passato la bella giornata di ieri, sabato, dietro i lavori del convegno dedicato ai rapporti tra teatro e cinema. Fuori c’era il sole, il carnevale, la manifestazione pro-Tsipras, San Remo, il Sei Nazioni di rugby, ma noi ce ne stavamo nella penombra del teatro Argentina. Qui, infatti, ha preso vita l’incontro organizzato da Oliviero Ponte di Pino, Mimma Gallina, Marina Fabbri e Laura Mariani, riuniti per questa nuova puntata di un ciclo di appuntamenti chiamato le “Buone Pratiche del Teatro”.
Peccato però non ci fosse tantissima gente: sarebbe stato interessante per gli allievi dell’Accademia “Silvio d’Amico” o per chi frequenta la scuola di Cinema ascoltare Toni Servillo e Paolo Sorrentino, Glauco Mauri, Michela Cescon, Angelo Curti, Anna Bonaiuto, Roberto Andò raccontare storia, dettagli, prospettive dei propri mestieri a cavallo tra set e palcoscenico.
Così come sono stati brillanti i giovanissimi autori del Terzo Segreto di Satira, il concettuale videomaker Stefano Carloni (che con Franceschetti si è dedicato all’opera di Romeo Castellucci), o ancora Stefano Ricci del premiato duo Ricci/Forte, Marco Cavalcoli di Fanny&Alexander.
Insomma, un bel panorama, che ha offerto spunti di intrigante prospettiva – ma anche qualche luogo comune.
A un certo punto sono saliti sul palco gli ottimi Enrico Ianniello e Renato Carpentieri (in scena, ancora oggi, al Teatro Vascello di Roma con I giocatori: ne scriverò presto, è uno spettacolo da non perdere).
Carpentieri – questo maestro della scena, con la sua aria garbata e intellettuale – ha tirato un paio di stilettate. La prima contro la crescita esponenziale dell’attore “funzionale”, la seconda contro l’entusiasmo critico.
Provo a riassumere il pensiero di Carpentieri, che spero mi perdonerà la sintesi. Si diffonde a macchia d’olio, in Italia, una figura d’attore pronta a tutto, ma senza particolare personalità, e una critica appiattita e non selettiva inneggia con spreco di aggettivi, falsando i reali valori mostrati.
I rilievi di Carpentieri sono in gran parte condivisibili, ma ci tengo a un paio di appunti.
È vero, gli attori di teatro oggi sono, più che mai, “funzionali”, ovvero dei mercenari professionisti. Abituati a combattere quotidianamente, non disdegnano – e fanno bene – la minima proposta retribuita. Passano agilmente dal teatro alla fiction tv (migliorandone il livello qualitativo), dal cinema al teatro sociale, dal musical alle matinée per le scuole, dal burlesque al fare i fonici. È cambiata, in sostanza, la formazione stessa dell’attore: prima specifica e concentrata, oggi più aperta e trasversale. E si è innalzato, secondo me, il livello medio degli interpreti italiani. Certo, ci sono ancora quei bei cagnacci di una volta, impalati e afoni; ci sono gli eterni raccomandati e gli imbucati; ci sono le meteore e i fenomeni passeggeri. Però mi pare diffusa una qualità e una responsabilità condivisa, che fanno degli attori figure sempre più “autorali”, consapevolmente partecipi del processo creativo e produttivo.
Qui entra il secondo tema, ovvero la valutazione critica. Anche in questo caso, Carpentieri ha ragione. Vi è un “entusiasmo preventivo”, da parte soprattutto della giovane critica, per quel che è “innovativo”, di “ricerca”, di “tendenza”. In tanti casi, il fine giustifica (purtroppo ancora) il mezzo. Ovvero: «siccome devo cambiare il mondo, non importa se lo spettacolo è raffazzonato», quel che conta è il nobile scopo e non il possedere doti e mezzi tecnici. In realtà, si sa, è vero il contrario: a teatro, il fine non giustifica più il mezzo. Però, l’inesperienza critica, la scarsa conoscenza, la mancata frequentazione, può causare una inevitabile adesione pregiudiziale: così si creano anche, tra l’altro, quegli epifenomeni modaioli, che però alla prova dei fatti non reggono 5 anni di vita. Come diceva Fidel Castro Ruiz:«La historia me absolverà», ovvero basta aspettare per vedere come si sgonfino tanti presunti genii o maestri del momento.
All’estremo opposto dell’entusiasmo, c’è il “passatismo critico”: «com’era bello il teatro di una volta». È la posizione di quelli per cui fa tutto schifo, tutto è noioso: il teatro è morto, il romanzo è morto, il cinema è morto. Ma loro, quei critici là, sono ben vivi, e continuano a fare estreme unzioni sui presunti “cadaveri insepolti”, come li chiamava Chiaromonte.
Oggi, infine, assistiamo anche a un altro strano (e intrigante) fenomeno: la mitizzazione del pubblico di certi lavori o artisti. C’è un pubblico, insomma, che affolla sistematicamente certi spettacoli. Provo a fare degli esempi: Filippo Timi, Ricci/Forte, Carrozzeria Orfeo, Vucciria Teatro: i loro lavori registrano il tutto esaurito ovunque vadano (ovviamente, inutile citare, qui Servillo, Emma Dante, Teatro dell’Elfo e tanti altri artisti di successo, ivi compresi Teatri Uniti dove milita Carpentieri).
Spettacoli e attori, insomma, che hanno un “proprio” pubblico consolidato, entusiasta. Non si tratta solo di popolarità (Timi) o di ottimo marketing (Ricci/Forte) né di impegno antiomofobico (Vucciria). Si tratta, semmai, di fare i conti con un pubblico che sceglie, che sa dove andare, che afferma i propri gusti e decreta i propri miti. La critica (vedi me) a volte non capisce, altre si schiera, certe volte anticipa altre ancora cavalca, spesso arranca.
Dobbiamo esserne felici? Alla fine, penso di sì: il fatto che il teatro, qualsiasi teatro, continui a parlare al pubblico è un bellissimo “anacronismo”. Una contraddizione, un errore di sistema storico, economico, politico, sociale. Che ci si ritrovi, nel buio di una sala, a condividere un evento è un miracolo. E se gli attori sono “funzionali” e i critici troppo buoni, poco importa. O no?
Il dibattito è aperto.
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