Asia

La Cina è in città: Dong Film Fest e Ai Weiwei a Torino

28 Ottobre 2016

C’è aria di Cina a Torino. No, non parlo dello smog, né sto malignando sullo spauracchio delle epurazioni dalle parti di Palazzo Civico. Mi riferisco alla Cina creativa, quella degli artisti anti-regime e dei cineasti indipendenti che apriranno a breve il mese che, tra Artissima, The Others, Club2Club e Torino Film Festival, è considerato – con il dovuto understatement sabaudo – il più eccitante nel panorama culturale torinese.

Si comincia, già il 28 ottobre, con una vecchia conoscenza: il dissidente che ormai è un’istituzione, il ribelle di fama planetaria, il perseguitato diventato prodotto globale della Cina contemporanea nonché uno dei più influenti artisti al mondo, l’iconico Ai Weiwei. A lui Camera, Centro Italiano per la Fotografia aperto da poco più di un anno, dedica fino al 12 febbraio “Around Ai Weiwei: Photographs 1983-2016”, rara antologica di scatti e documenti video, curata da Davide Quadrio, che arriva in contemporanea con la grande retrospettiva di Palazzo Strozzi a Firenze. Non tanto le opere, quanto la vita dell’artista è al centro di una mostra che, spiegano gli organizzatori, “esplora la genesi di Ai Weiwei come personaggio pubblico e icona del mondo asiatico”. Ci sono le immagini degli anni newyorkesi, la documentazione di alcuni progetti artistici, interviste inedite e opere video, momenti privati, istantanee del lavoro con tutto l’entourage e testimonianze della vita culturale della Cina anni Novanta e Duemila. E poi c’è Pechino, colta nell’attimo della trasformazione, paradigma di un’Asia in precipitosa corsa e abnorme crescita verso il futuro.

Futuro che è già quello della generazione di cineasti protagonisti del neonato Dong Film Fest, dal 4 al 6 novembre al Cinema Massimo di Torino, con anteprima il 2 al Teatro Baretti. Piccola ma intrigante rassegna, il Dong – che per l’appunto vuol dire Oriente, in mandarino – si va a inserire in una nicchia ancora colpevolmente vuota (non solo sotto la Mole) e la riempie grazie alla testarda volontà di una giovane squadra che, visti i tempi di vacche magre per i finanziamenti alla cultura, ci ha messo del suo e spera ora di recuperarlo, almeno in parte, con un crowdfunding su Eppela. Insomma, chi fa da sé fa per tre. La direttrice artistica Zelia Zbogar e soci hanno pensato che i tempi fossero maturi per imparare qualcosa sul nuovo cinema cinese, avanguardia di una società che cerca di tenere il passo con un travolgente sviluppo economico e che presto, oltre alla libertà di consumare, vorrà anche quella di esprimersi. Arrivano così a Torino cinque lungometraggi e altrettanti cortometraggi messi insieme attraverso il circuito dei festival europei più lungimiranti (Berlino e Amsterdam in primis) e grazie alla partnership con la Communication University dello Shanxi, provincia a ovest di Pechino.

Dong Film Fest, "What's in the Darkness"

 

Gli artisti hanno tra i 20 e i 40 anni e fanno cinema indie, in quanto estranei alle logiche del box office e a quelle della grande industria di Hong Kong; si muovono però nell’alveo o all’ombra semi-istituzionale dell’Accademia, operando in quel singolare limbo di tolleranza che il regime riserva alle opere artistiche che non peccano di troppa notorietà, né azzardano messaggi politici troppo espliciti, realistici o comprensibili. Ma qui sta il bello: si parla di qualcosa per suggerire altro. Gli sguardi sono intimi, i punti di vista ostentatamente soggettivi, tanto che spesso (e non mi riferisco necessariamente ai film del festival) si avrebbe la tentazione di liquidarli come individualismo un po’ naif. Il punto è che i giovani cinesi parlano di ciò di cui possono parlare, e partono da lì: dai sentimenti, dal loro quotidiano, dalle relazioni, dai piccoli drammi ombelicali, dalla morte, dal sesso (che è comunque materia sovversiva per i puritani rossi…).
Ecco allora che una fiaba nera di fantasmi e reincarnazioni – Life After Life – diventa il pretesto per affrontare il tema dello spopolamento, spesso coatto, delle campagne e del dissolvimento delle reti sociali fondate sulla famiglia; o la scioccante scoperta del sesso da parte di un’ingenua adolescente – What’s in the Darkness – smaschera la chiusura e l’opprimente senso di colpa in cui sono state cresciute, o meglio, incatenate, intere generazioni. E poi ci sono le notti d’amore mercenario nel ventre della metropoli raccontate in The Night; il road movie esistenzialista di Poet on a Business Trip, ambientato nella vasta e desolata provincia dello Xinjiang (quella della minoranza musulmana degli Uiguri, che qualche grattacapo al governo lo dà sempre); o i vagabondaggi in taxi di Where Are You Going? fra le strade di Hong Kong (la “straniera” entro i confini domestici), che malgrado lo sguardo distaccato e documentaristico, confessano il desiderio di una realtà e di una vita diverse.

L’ambiguità è, insomma, una necessità di sopravvivenza, e lo slittamento continuo fra verità e finzione, introiettato dopo 70 anni di regime, è una forma mentis che modella le abitudini, condiziona il quotidiano e naturalmente si riflette nell’espressione artistica. È un passaggio fluido e impercettibile fra i piani del vero, del verosimile e dell’assurdo che spesso spiazza e stordisce il viaggiatore nella Cina contemporanea. Chi ci si è trovato sa di che si tratta, e sicuramente lo sa bene l’attore Massimo Giovara, che insieme al regista Lucio Lionello racconta questo particolare shock culturale in un surreale docu-fiction, China Play Time, che sarà presentato in anteprima fuori festival il 2 novembre, unico sguardo italiano della rassegna e insieme possibile chiave di lettura per le visioni a seguire.

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