Cinema
Milano si specchia in un assoluto presente
“Il Posto” (1961). “La Notte” (1961). “Milano Calibro 9” (1972). “L’aria serena dell’Ovest” (1990). “Fame Chimica” (2004). “Come l’ombra” (2006). “Io sono l’amore” (2009). “Cosa voglio di più” (2010).
Ho cercato di mettere in fila alcuni dei film che negli anni hanno segnato la mia maniera di guardare Milano, di ritrovarla riflessa dentro il grande schermo, un principio di riconoscimento che in qualche modo mi ha sempre aiutato a tenere insieme un’immagine per così dire unitaria-o forse semplicemente non “microemozionale”, fatta solo di frammenti dei miei vissuti-della mia città.
Mi accorgo che poi c’è stato un buco, un periodo in cui l’occhio del cinema ha smesso di osservare Milano, negli anni che a me piace chiamare “in between”, in cui si è realizzata la trasformazione estetica che ha prodotto la città in cui oggi siamo immersi, quella del Bosco Verticale di Stefano Boeri, di Porta Nuova e City Life, di Palazzo Lombardia e della Torre César Pelli.
C’è un film, L’assoluto presente, che ho visto la scorsa settimana allo Spazio Oberdan (dov’è ancora in programmazione, sino al 4 gennaio) che mi sembra incarnare la ripresa di contatto dello sguardo del cinema con la nuova Milano. Mi ha ricordato potentemente “Collateral” di Michael Mann, e già questo fatto dice moltissimo del cambiamento di punto di vista e prospettiva. Una città che oggi può apparire fuori scala rispetto all’immagine sedimentata nei film che citavo prima.
Era tempo che ci si tornasse a interrogare sulle implicazioni di questa trasformazione, a riconnetterle con la possibilità di generare narrazione, di abitarvi una storia (che è poi una vicenda di violenza giovanile, che ha come protagonisti tre ragazzi di buona famiglia colti a loro volta dentro al movimento ascensionale della città).
Il regista del film, Fabio Martina, ha spiegato di star lavorando al film dal 2007. Dunque da prima che Milano cambiasse. E una parte della forza del film sta proprio in questa riconfigurazione, che riguarda gli esterni emozionali e l’interno dei vissuti, la parte che si cela dietro la superficie specchiante.
Il film contiene una citazione-credo consapevole-a “Kids Return” un lavoro di Takeshi Kitano che ho amato molto, che vidi nel 1996, nella stessa rassegna di Cannes in cui fu proiettato “Trainspotting”, e persino nella stessa sera. Mi sembrò molto molto più potente di Trainspotting, e nel movimento di macchina da cui prende le mosse il film, è inscritto un punto di vista che mi è rimasto attaccato addosso in tutti gli anni successivi, che è diventato un mio modo di guardare la città.
“Kids Return” è un film urbano tutto orizzontale, come orizzontale è per lo più il cinema di Kitano. “Collateral” è un film per lo più orizzontale, anche se ambientato in una città americana. La Los Angeles di Collateral, la stessa di un libro epocale degli Anni Novanta a cui sono molto affezionato, “Città di Quarzo” di Mike Davis (1999), si rispecchia nella Milano de L’assoluto presente, il primo film che pone il centro della città, quello dove avvengono gli incontri, il luogo dell’attesa e della generazione dei fatti, fuori da quello che è riconosciuto storicamente come il centro. C’è anche un cane che richiama il coyote di Collateral, perché dentro a quest’idea itinerante di città policentrica o anche off/centrica l’aneddotica tende fatalmente a somigliarsi e ricorrersi.
Nella scena finale invece c’è un altro richiamo, a uno dei più potenti e struggenti film urbani che ricordi, “Vive l’amour” di Tsai-Ming Liang, ambientato nella Taipei degli Anni Novanta (il film è del 1994). L’uscita dal film di Martina avviene in un interno, ma è emblematico che richiami quella del film taiwanese, che invece era in un esterno metropolitano. “L’assoluto presente” è anche (il film naturalmente è molte altre cose, e per molti versi rifugge dalla possibilità di schiacciarlo su di una sola chiave di lettura) un percorso di interiorizzazione della forma della città, un passaggio dall’esterno all’interno, dallo spazio alla psicologia.
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