Cinema

Kafka a Teheran, un ottimo film per capire l’Iran (nonostante la nostra critica)

5 Ottobre 2023

“Prova a fare lo stesso in Iran, allora!” Femministe, persone queer e minoranze in Italia si sentono spesso rispondere con questa espressione terra terra quando raccontano di sé, di un abuso o un sopruso subito, del proprio desiderio di libertà. Da questa parte di mondo le proteste che da un anno attraversano le città iraniane sono arrivate per molti come una sorpresa,  nonostante la Storia dimostri che le contestazioni di massa non sono affatto una novità o una conquista recente. Quel Prova a farlo in Iran viene detto con tono polemico, perché secondo gli ultra-conservatori occidentali certi comportamenti che verrebbero da loro per primi considerati eccessivi non vengono nemmeno mai agiti lì, se non forse di nascosto, al fine di evitare punizioni esemplari. Ma la realtà smonta tali credenze, volte unicamente a presentare le potenze occidentali come democrazie pure e inattaccabili, come se la libertà qui fosse garantita sempre e ovunque, come se il patriarcato fosse stato sconfitto per sempre, come se le disuguaglianze fossero state abolite e l’Occidente fosse il Paradiso per le minoranze. Ma soprattutto, come se in Iran nessuno il avesse coraggio di ribellarsi.

Tale premessa per dire che Kafka a Teheran, in uscita il 5 ottobre grazie ad Academy Two, è un film che in Occidente alcuni dovrebbero per vedere anche per realizzare una volta per tutte che, nonostante un regime repressivo, cittadine e cittadini in Iran mettono in pratica ogni giorno forme di resistenza necessarie per la propria sopravvivenza, curandosi soprattutto della propria salute mentale senza rinunciare a contestare ed interrogare il potere e chi rappresenta la sua autorità. Ogni piccola azione della vita quotidiana porta a farlo, come risposta alle situazioni kafkiane – di qui la scelta del titolo in Italia – vissute dai protagonisti, che sono persone ordinarie, con professioni piuttosto comuni (fa eccezione uno sceneggiatore). All’anagrafe per registrare il nome di un bambino appena nato, al momento di rinnovare la patente o di stipulare un accordo di lavoro, chi incarna l’autorità ordina, norma e aggredisce, restandosene per lo spettatore al sicuro fuoricampo, amplificando la percezione che le persone comuni ricavano nello scontrarsi anche involontariamente con chi vive in modo opposto, senza rivelarsi, senza metterci la faccia, senza rischiare, mettendo però in pericolo gli altri.

Come i registi Ali Asgari e Alireza Khatami hanno spiegato, tutto ciò ovviamente non accade solo in Iran, ma ovunque qualcuno decida di esercitare il potere o di dotarsi di un’apparenza che lo permette. Il film è strutturato per episodi, con pochissimi personaggi. In particolare, nell’episodio che vede protagonista una giovane ad un colloquio di lavoro si potrà riconoscere qualunque donna abbia incontrato un esaminatore dall’istinto predatorio. La composizione per episodi rende senz’altro il film più semplice da interpretare per il pubblico occidentale, che diversamente avrebbe potuto riscontrare delle difficoltà nel memorizzare nel tempo breve della sua durata i nomi dei personaggi, le connessioni, i legami, gli ambienti e altri aspetti (come sosteneva Hitchcock nelle interviste rilasciate a Truffaut, lavorare per sottrazione rispetto ad alcuni aspetti che il pubblico deve tenere a memoria è vincente).

Qualcuno all’Accademia dei David di Donatello si starà forse mangiando le mani di fronte a questa uscita al cinema, in quanto uno dei due registi, Ali Asgari, ha un precedente con l’Italia. Nel 2016, infatti, per quanto sia storia poco nota, è stato escluso dai David in ragione di un regolamento vetusto. Il cortometraggio Il silenzio, che aveva diretto con Farnoosh Samadi, aveva fatto parte di una selezione meritevole di rappresentare l’Italia al Festival di Cannes, in quanto era stato prodotto dall’italiana Kino Produzioni, ma non aveva poi potuto competere qui per la statuetta perché i registi non hanno cittadinanza italiana. Tale declinazione dell’ossessione per il Made in Italy, così irragionevole se applicata a un’arte come il cinema che non ha né può avere confini, aveva portato il produttore Giovanni Pompili a scrivere una lettera aperta all’Accademia dei David. Per di più, chi vince ai David può essere candidato a rappresentare l’Italia agli Oscar, e altri paesi fanno nominations che corrispondono a scelte di campo precise e meno pavide. Ad esempio la Francia ha scelto l’olandese Paul Verhoeven e poi l’italiano Filippo Meneghetti. «Continuerò ovviamente a produrre in Italia, badando alle storie più che ai passaporti di chi le racconta», aveva concluso Pompili con amarezza, ma anche con orgoglio per il lavoro fatto con Samadi e Asgari, i quali avrebbero poi deciso di migrare in Francia, dove dal 2007 esiste un fondo collegato alla Commissione Images de la diversité rivolto proprio ai registi che hanno base nel paese, indipendentemente dalle origini. Grazie all’insistenza di alcuni (pochissimi) professionisti del settore, la regola che aveva escluso Asgari è stata nel 2021 finalmente aggiornata allo spirito del tempo presente, aprendo alla possibilità che in un futuro prossimo un regista non nato qui possa arrivare prima ai David e poi anche agli Oscar, con buona pace di quella vasta area politica cui non riesce di proporre leggi prive di qualche forma di esclusione e razzismo.

Eppure, per riconoscere il talento di Asgari – e dunque l’opportunità di sostenerlo – sarebbe bastato documentarsi un po’ sui suoi successi: ad oggi si è aggiudicato oltre 200 riconoscimenti e due suoi cortometraggi sono stati candidati per la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Ha incontrato il collega Alireza Khatami alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2017 e lì hanno realizzato di avere molto in comune: “Io faccio parte della minoranza Tat, e Alireza fa parte della tribù indigena Khamse. Entrambi siamo cresciuti in famiglie numerose. Io ho sei sorelle e Alireza ne ha quattro. Il cinema non era per nessuno dei due una carriera probabile”, ha spiegato.

Filosofia, poesia e umorismo sono le armi contro con cui i due affrontano il potere, pagando personalmente le conseguenze: i loro film precedenti sono stati oggetto di censura e per questo hanno dovuto girare Kafka a Teheran in soli sette giorni, colpevoli di aver lasciato il paese. Non essere autorizzati a svolgere delle riprese oppure ostacolati in altri modi è quanto accade in Iran a molti registi (migranti e non solo), perciò associare il film a quelli di Jafar Panahi significa operare una forzatura che rivela scarsa conoscenza della ricchezza del cinema iraniano, in particolare quello della diaspora.

Un aspetto non secondario nel vedere Kafka a Teheran a Roma è infatti nel poter osservare come sulla nostra stampa si registri una corsa spasmodica ad occuparsi di Iran e di censura a seguito delle proteste successive all’omicidio di stato della giovane Masha Amini note come Donna Vita Libertà (in curdo Jin, Jîyan, Azadî‎, in persiano ژن، ژیان، ئازادی) iniziate oltre un anno fa, con risultati disastrosi per il giornalismo e chi lo fruisce / subisce, che originano evidentemente dall’ignoranza. Oltre a chiamare in causa Panahi tutte le volte che non sovviene un riferimento più appropriato – Asgari e Khatami hanno chiarito “Per noi Kafka a Teheran ha lo spirito curioso e sperimentale di Kiarostami, dunque perché insistere? – i media mainstream dimostrano spesso di conoscere pochissimo la cultura che vorrebbero raccontare con le loro sintesi improvvide.

Come ad esempio quando scoprono per la prima volta i riferimenti (ce n’è più di uno anche in Kafka a Teheran) ai giganti della poesia persiana. I versi dell’indimenticato Rumi (chiamato anche Mòlānā e in altri modi), vissuto nel ‘200 e tradotto da più editori, anche in italiano, sono citati in moltissime opere di altri autori noti, nelle diverse discipline artistiche. E come i due registi hanno spiegato, la struttura per episodi del loro Terrestrial Verses è debitrice della poesia Ghazal, la cui forma include un dialogo tra due personaggi che si confrontano, ricambiano o sfidano in modo arguto e utilizzando l’umorismo.

Esito della mancata conoscenza dei vari riferimenti sono diversi errori che si rintracciano nelle recensioni nostrane di film iraniani. Per fare qualche altro esempio, il titolo internazionale qui è un omaggio a Forugh Farrokhzad, che in articoli evidentemente copiati e tradotti da testate straniere viene presentata al maschile, così, di default.

Ma Farrokhzad era una donna, ed è stata una delle maggiori poete del Novecento. Scomparsa nel 1967, è una figura fondamentale nella cultura persiana, forse la più famosa in assoluto in Iran. Negli anni cinquanta e sessanta i suoi versi hanno sfidato e provocato la classe politica e l’ordine imposto dal maschile, rendendola una delle artefici del rinnovamento nella letteratura persiana. Per di più ha diretto nel 1963 un film di denuncia sociale, La casa è nera, passato anche su Fuori Orario e proiettato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione dedicata ai Classici. In Italia ha conosciuto i Bertolucci (come ricorda Bernardo stesso in un’intervista) e ha realizzato alcune versioni iraniane di film italiani, purtroppo non facili da reperire. Le sue opere sono state vietate con la rivoluzione del 1979, ma gli iraniani sanno come procurarsele.  In italiano è uscita lo scorso maggio la raccolta Tutto il mio essere è un canto, che include anche lettere d’amore e interviste (pubblicata da Bompiani con la traduzione di Faezeh Mardani e Francesco Occhetto e la prefazione di Maria Grazia Calandrone).

Ali Asgari e Alireza Khatami amano scherzare sul fatto che si sono conosciuti su Tinder, e anche se non corrisponde al vero è un’altra conferma di come non vogliano essere assoggettati ai dettami del regime. Si dibatte spesso dell’opportunità di utilizzare il termine rivoluzione nel restituire il lascito delle proteste nel loro paese: per alcuni commentatori andrebbe utilizzato solo nel caso di un rovesciamento irreversibile del regime, che non è ad oggi avvenuto. Di certo però il mutamento in termini culturali, anche per quanto riguarda la vita privata e le relazioni tra i generi, è tangibile.

“Guardiamo le strade. Guardiamo i nostri amici. Abbiamo guardato le nostre famiglie. E ci siamo resi conto che il momento di raccontare storie attorno al fuoco era finito. Era giunto il momento di raccontare una storia “all’interno” del fuoco”.

Terrestrial Verses è un gran bel film. Non perdetelo.

 

 

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