Cinema
Jugonostalgija – Cronaca d’una visione di “cinema Komunisto”
Esisteva un tempo la Jugoslavia. Era la terra mitologica dei nonni, nata intorno agli eroi sulle montagne. Un grande sogno che scioglieva i confini, che rivendicava un mondo senza schiavi, la creatura d’un tempo nel quale rivoluzione e lotta di liberazione nazionale si fusero in un’unica grande bandiera interetnica. Un mondo rigidamente diviso in prolet e capitalisti, giusti e cattivi, buoni e malvagi, perciò un mondo semplice, dalle convinzioni radicali, un mondo che visto con gli occhi dell’oggi, quelli che sfuggono per un secondo al display, appare quasi ridicolo, caricaturale. Oggi che il nostro sguardo è così maturo in quanto nichilista, così fieramente spoetizzato. Già. A guardarli coi nostri occhi, quei contadini titoisti che spalano entusiasti le montagne per la patria, sembrano le macchiette di un vecchio film dei Monty Python.
Eppure lo sguardo di questi ragazzi che ho accanto, questo sguardo per il resto smaliziato, almeno mi pare sinceramente di intravvederlo, rivela anche una sorta di invidia per quello spirito unitario, per quel sentirsi parte d’un tutto collettivo, per la potenza retorica di quel “si l’abbiamo fatta noi questa terra, é nostra!”, per un orgoglio dimenticato.
Sono nella sala con loro, con gli studenti di serbocroato, e guardiamo insieme “cinema komunisto”. Faccio qualche foto ai fotogrammi di Tito, frammenti della produzione della Avala film. Cerco di capire questi ragazzi croati, serbi, musulmani, ancora divisi da profonde faglie storiche ma oggi qui riuniti in quest’aula universitaria d’oltre mare, per un film che racconta la grande illusione per quella che un tempo fu la patria unitaria dei loro padri. Cerco di leggere qualcosa dalla loro postura, capire se prevalga la nostalgia o che altro. E qui, in Italia, in territorio Nato, com’è per voi ritrovarvi? Oppure le sedie rimangono ancora invisibilmente divise e l’unico collante possibile è in quel generico “globale” occidentale, oppure ancora il vostro ritrovarvi oggi ha radici in quella roba che si vede là, col maresciallo che firma autografi e dettaglia le gesta dei partizaner ai cineasti di Stato? E oggi voi, qui, secoli dopo, riuscite almeno a parlarvi? Ad andar oltre la “palacinca” che, sappiamo, è un legante alla Nutella? Ritrovate un’identità dissolta? Oppure quel mito non ha più niente da dire, come una vecchia religione a cui nessuno può più credere, nemmeno col cuore?
Eppure, vi vedo dal fondo, dal fondo della sala. Vedo che il vostro sguardo vacilla, che a tratti si emoziona. Uno sguardo che non sa che parti prendere. Lo schermo infatti si lascia scorrere, lascia i volti basiti, non dà certezze. In fondo anche questo nostro mondo contemporaneo-occidentale è semplice, qui si prendono sempre le parti di chi appare più rock. E quell’uomo convinto, quello che si vede laggiù tra i fotogrammi, quello che sventola con forza una bandiera stellata, mito d’un umanità oltre i confini, potrebbe o no essere vostro nonno, oppure lo zio? Cosa è rimasto di quell’entusiasmo? Mi immagino che questi ragazzi si interroghino anche così. Ma in effetti poi tacciono, il giudizio è ancora sospeso, il dramma è così vicino, il mito così lontano, il futuro così incerto. Eppure stanno lo stesso lì, tutti seduti, tutti nella stessa piccola sala, a guardare l’unico collante che li accomuni, in quel vecchio e “loro” mondo, quello che in fondo ha coniato quell’unica lingua con cui oggi si parlano. E i loro volti si somigliano, come i petali di questo fiore che disperso e negato pur rimane fiore. E così metto pure il fiore al posto delle foto di sala, perché ne parla meglio.
Smrt fašizmu, sloboda narodu!
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